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21 Ottobre 2025 - 23:14
Il presidente Lula
C’è un paradosso che ha il colore nero del petrolio e l’odore acre delle menzogne politiche. Si chiama Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile, autoproclamato paladino del clima e prossimo padrone di casa della COP30 a Belém, nel cuore dell’Amazzonia. Sì, proprio lui, quello che ama mostrarsi come difensore dei popoli indigeni, delle foreste tropicali, dei diritti sociali, oggi firma con entusiasmo l’autorizzazione per far trivellare Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni. Una mossa che sa di beffa, di tradimento, di puro cinismo politico. Altro che “Brasile verde”: Lula ha appena acceso il motore del più grande disastro ambientale della sua presidenza, e lo ha fatto sorridendo, circondato dai soliti burocrati che chiamano “progresso” ciò che è semplicemente voracità economica.
La decisione dell’agenzia ambientale Ibama, che ha concesso il via libera all’esplorazione petrolifera offshore a circa 175 chilometri dalla costa dello stato di Amapá, non è arrivata dal nulla. È il risultato di mesi di pressioni politiche, di retoriche patriottiche e di discorsi ambigui sul “diritto del Brasile a sfruttare le proprie risorse naturali”. Lula e Petrobras hanno trovato la formula perfetta per giustificare l’ingiustificabile: trivellare in nome della transizione ecologica. È un capolavoro di linguaggio politico, degno dei migliori manuali di manipolazione semantica. Si tratta di una vera e propria trivellazione della verità.
La narrativa ufficiale è nota: il Brasile, si dice, ha bisogno di finanziare la transizione verso le energie rinnovabili. E quale modo migliore per farlo, pare chiedersi Lula, se non vendendo nuovo petrolio? Il ragionamento è tanto surreale quanto ipocrita: scaviamo nel cuore della biodiversità amazzonica per salvare il pianeta. In altre parole, uccidiamo un pezzo di mondo per curarne un altro. Ma chi crede davvero a questa favola? Di certo non le ONG, non le popolazioni indigene, non gli ambientalisti che da settimane gridano all’allarme. E nemmeno chi conosce un minimo la storia recente del Brasile, un Paese che alterna promesse di sostenibilità a ondate di deforestazione, trivellazioni, incendi e corruzione.
L’operazione durerà cinque mesi, ma le sue conseguenze potrebbero restare per decenni. L’area del Margine Equatoriale è una delle più fragili dal punto di vista ecologico: un intreccio di mangrovie, coralli, ecosistemi marini unici al mondo, popolazioni costiere che vivono di pesca e di turismo, e una biodiversità che non conosce eguali. Petrobras esplorerà lì, come se fosse un deserto geologico, un luogo senza vita. In realtà, ogni goccia d’acqua di quel tratto di oceano è parte di un equilibrio complesso e vitale, che una fuoriuscita di greggio o un incidente tecnico potrebbero compromettere in modo irreversibile.
Ma chi se ne importa, sembra dire Lula, se in gioco ci sono miliardi di dollari e la gloria politica di poter annunciare al mondo che il Brasile “sta crescendo”. È questa la parola magica che apre ogni porta, anche quelle che dovrebbero restare sigillate per il bene comune. Crescita. Progresso. Sviluppo. Tre parole che, pronunciate da un politico in cerca di consensi, valgono più di qualsiasi foresta. È la stessa logica che negli anni ha devastato intere regioni amazzoniche per far spazio a pascoli e miniere: l’idea che l’economia venga prima di tutto, anche della vita.
L’ipocrisia di Lula sta tutta qui. In patria si presenta come il leader che ha rimesso il Brasile sulla mappa della giustizia sociale e della sostenibilità; all’estero si atteggia a figura di mediazione tra Nord e Sud del mondo, paladino dei paesi emergenti nella lotta al cambiamento climatico. E intanto, nel silenzio di un ufficio di Brasilia, firma la condanna di un ecosistema intero. È difficile immaginare qualcosa di più simbolico: lo stesso presidente che ospiterà la prossima conferenza globale sul clima è colui che dà il via libera al più controverso progetto petrolifero della storia recente del Brasile.
È come se Greta Thunberg aprisse un distributore di benzina, o come se il Papa investisse nella produzione di armi. Lula si difende parlando di “sovranità nazionale” e di “giustizia energetica”. Parole altisonanti, certo, ma vuote. Perché la verità è che dietro la patina patriottica si nasconde una vecchia storia: quella di un Paese che continua a dipendere dal petrolio, dalle esportazioni, e da un modello di sviluppo che non è sostenibile, né oggi né domani.
Petrobras, dal canto suo, non ha mai fatto mistero del suo obiettivo: cercare nuovi giacimenti nel Margine Equatoriale, un’area che si ritiene potenzialmente ricchissima di greggio, simile alle riserve scoperte negli ultimi anni in Guyana e Suriname. Per la compagnia, questa è l’occasione di un nuovo Eldorado. Per il pianeta, è un rischio catastrofico. Le trivellazioni in acque profonde comportano un potenziale disastro ambientale, come dimostrano i casi del Golfo del Messico e dell’Atlantico settentrionale. Ma a quanto pare, Petrobras ha deciso di giocare con il fuoco. E Lula, da bravo alleato politico, tiene il cerino acceso.
Le organizzazioni ambientaliste non ci stanno. L’Osservatorio del Clima ha definito la decisione un “sabotaggio morale della COP30”, accusando il governo di compromettere la credibilità internazionale del Brasile. Altri parlano di “suicidio politico”, di “vergogna nazionale”. Ma le parole, si sa, scivolano via facilmente quando a parlare è il potere. Lula, che da sempre sa gestire la comunicazione meglio di chiunque altro, ha liquidato le critiche come “ideologiche”. Ha detto che il Brasile non può essere “un prigioniero del radicalismo ecologista”. Tradotto: la foresta è bella, ma il petrolio paga di più.
Le comunità indigene della regione, già duramente colpite dall’avanzata dell’agrobusiness, vivono questa decisione come un’ennesima violazione dei loro diritti. Non sono state consultate, nonostante la Costituzione brasiliana e i trattati internazionali prevedano l’obbligo di dialogo con le popolazioni locali per ogni progetto che le riguardi. Ma in Brasile, come in troppi altri Paesi, i popoli originari continuano a essere invisibili. E quando osano protestare, vengono etichettati come “ostacoli allo sviluppo”.
L’autorizzazione concessa dall’Ibama, l’istituto brasiliano per l’ambiente, arriva dopo mesi di tensioni interne. Lo scorso anno, la stessa agenzia aveva respinto una richiesta simile, sostenendo che Petrobras non aveva fornito garanzie sufficienti sui piani di emergenza e salvataggio della fauna marina in caso di incidente. Oggi, improvvisamente, tutto sembra risolto. In un Paese dove le pressioni politiche sono più forti delle tutele ambientali, la coerenza non è di casa. E chi osa chiedere conto di questa inversione viene accusato di sabotare il progresso nazionale.
Lula, dal canto suo, non ha mai nascosto di considerare l’Amazzonia una “risorsa strategica”. Ma trattare la foresta come una miniera significa negarne la funzione vitale per il pianeta. La foce del Rio delle Amazzoni non è un deposito di carburante, è un organismo vivente, una frontiera biologica da cui dipende l’equilibrio climatico globale. Ogni trivellazione, ogni perforazione, è una ferita aperta nella pelle del mondo. Ma a Brasilia sembra che le ferite contino poco, finché il bilancio statale si colora di verde... non quello delle foreste, ma dei dollari.
La tempistica, poi, è quasi comica. A poche settimane dalla presentazione ufficiale della COP30, che si terrà proprio in Amazzonia, Lula sceglie di inaugurare la stagione delle trivelle. Un tempismo perfetto per dimostrare al mondo quanto la politica climatica possa essere schizofrenica. Da un lato, il Brasile vuole presentarsi come modello di economia sostenibile, promotore di una “nuova alleanza globale per la natura”. Dall’altro, concede licenze petrolifere in zone vergini. È come organizzare un convegno sull’alimentazione sana mentre si sponsorizza una catena di fast food.
La contraddizione è talmente evidente che persino alcuni alleati politici di Lula iniziano a prenderne le distanze. Dentro il Partito dei Lavoratori, non tutti condividono questa corsa al petrolio. Ma il presidente tira dritto. Si comporta come se la sua autorità morale fosse intoccabile, come se bastasse qualche discorso infarcito di parole come “giustizia climatica” e “transizione verde” per lavarsi la coscienza. È lo stesso Lula che, da giovane sindacalista, sfidava il potere economico in nome dei lavoratori; oggi difende le multinazionali energetiche in nome dello sviluppo. Il potere, si sa, cambia le persone.
Ma c’è di più: Lula non è un ingenuo. Sa benissimo che la transizione energetica vera richiede tempo, investimenti e sacrifici. Sa che la strada verso un Brasile meno dipendente dai fossili passa per le rinnovabili, per l’idrogeno verde, per la riduzione dei consumi. Ma preferisce la scorciatoia del petrolio, quella che garantisce risultati rapidi e consensi immediati. È una scelta politica, non economica. È l’ennesimo compromesso tra l’immagine progressista e la realtà di un Paese che continua a vivere di esportazioni fossili.
Nel frattempo, la macchina della propaganda è già partita. Petrobras parla di “progetto sostenibile”, di “tecnologie all’avanguardia per la tutela dell’ambiente”. Parole che suonano come una presa in giro, considerando che stiamo parlando di trivellazioni in acque profonde, in un’area dove le correnti oceaniche rendono quasi impossibile intervenire tempestivamente in caso di fuoriuscita. Gli esperti lo sanno: un incidente lì sarebbe devastante. Eppure il governo minimizza, assicurando che “tutto è sotto controllo”. Una frase che abbiamo sentito troppe volte, e che puntualmente precede ogni disastro.
Il mondo guarda, e giudica. Non si può predicare la salvezza del pianeta mentre si scava per estrarne il veleno. Lulavoleva essere il volto della nuova leadership climatica del Sud globale, ma rischia di diventare il simbolo del suo fallimento. La COP30 a Belém si annuncia già come un paradosso vivente: la conferenza mondiale contro il cambiamento climatico ospitata da un Paese che, nello stesso momento, trivella alle porte della foresta più importante del mondo.
Alla fine, resta una domanda semplice e terribile: quanto vale un litro di petrolio rispetto a una goccia di Amazzonia? Lula sembra aver già risposto. Per lui, la foresta può aspettare. Le trivelle no.
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