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21 Ottobre 2025 - 22:11
Elena Piastra
C’è chi va al parco per cercare un po’ di natura e chi, a Settimo Torinese, la trova direttamente davanti a casa. Basta abitare in via De Francisco, dove la vegetazione ha ormai superato il metro e la giungla urbana cresce rigogliosa, incurante di cartelli stradali, passaggi pedonali e, soprattutto, automobilisti che non vedono più chi arriva all’incrocio.
Un’abitante della zona racconta, con un misto di ironia e disperazione, quello che è sotto gli occhi di tutti.
“L’erba è così alta che non si vedono le auto che sopraggiungono. È pericoloso. Ma almeno abbiamo creato un’oasi naturale degna di questo nome, con farfalle, pantegane che passeggiano impunite e qualche serpente che fa capolino tra i cespugli”.
Una meraviglia per gli amanti del “green”, una tragedia per chi vive qui e deve uscire di casa sperando di non finire in un incidente.
I cittadini del quartiere hanno deciso di ringraziare pubblicamente, con sarcasmo e una punta di amarezza, la sindaca Elena Piastra e l’assessore Alessandro Raso (“quello che non rasa”), autori involontari di questa straordinaria impresa ecologica. “Grazie sindaca per questo immenso dono. Mi raccomando, lasciate tutto così ‘nature’. Portate ad esempio per l’Italia intera, oltre alla Biblioteca e all’Ecomuseo, anche l’oasi naturale di via De Francisco”.
Dalle foto si vede chiaramente la situazione: ai bordi della carreggiata erba alta, sterpaglie e marciapiedi invasi da piante spontanee. I segnali stradali sono semi-nascosti, le strisce pedonali ormai scolorite e i bordi delle strade un vero e proprio schifo.
Un vero paradiso per la biodiversità urbana, peccato che nessuno l’abbia mai chiesto.
Eppure il Comune, attraverso la sua società Patrimonio Città di Settimo Torinese, ha affidato un appalto da 2 milioni e 787 mila euro per la manutenzione triennale di circa 500 mila metri quadri di verde pubblico. Fate i conti voi: sono più o meno 800 mila euro all’anno, quanto basta in altre città per dieci tagli regolari, per dare agli alberi anche il biberon tutte le mattine.
L’appalto è stato vinto, guarda un po’, dall’unico partecipante, con un ribasso del 20 per cento: La Nuova Cooperativa Impresa Sociale, sede in via Carlo Capelli a Torino.
Perché? Perché la gara, ancora una volta, era stata scritta col pennarello indelebile del “sociale”. E quindi fuori le imprese vere, quelle che il verde lo tagliano per mestiere. Dentro il solito modello della cooperativa che ti fa il preventivo con le parole inclusione, fragilità, svantaggio. Che poi sulla carta è tutto bellissimo: immaginiamoci Mario, rimasto senza una mano, e Marco, affetto da sindrome di Down, intenti a tagliare l’erba con dignità e competenza. Magari con la musica classica in sottofondo e l’educatore che li incoraggia: “Bravi ragazzi, oggi tocca al parco giochi, domani alla rotonda!”.
Peccato che di tutto questo non si veda nulla. Nessun progetto trasparente. Nessuna relazione sugli inserimenti. Nessun controllo. Solo erba alta, incuria e topi. E allora la domanda sorge spontanea: dov’è il sociale? Chi l’ha visto? Chi lo verifica? Questo spendi e spandi serve davvero a migliorare la vita di qualcuno, o è solo l’ennesimo modo per affidare un appalto milionario in nome del bene, ma senza risultati?
Insomma, una scelta politica. E con questa logica, la città si trasforma: i marciapiedi diventano fossati, le rotonde piccole savane, le aiuole campi profughi per famiglie di roditori. A Settimo non si cammina più. Si attraversa. Con il machete.
La sindaca Elena Piastra, ex insegnante, ex innovatrice, ex speranza del centrosinistra, futura candidata alla presidenza della Regione Piemonte, non pervenuta. Sui social parla di futuro sostenibile, economia circolare, città intelligente. Ma il presente, sotto casa, è quello che è.
Insomma, Settimo è ormai una città dove il verde pubblico non si gestisce, si racconta. Dove l’appalto è “inclusivo”, ma esclude la manutenzione vera.
E se ti lamenti, sei tu che non capisci la complessità. Il sociale. I vincoli di bilancio. Gli insetti. I calendari lunari. Oppure sei un fascista! Un meloniano. E lo dicono loro che han trasformato la politica in un'arena in cui imperversa di tutto: parrucchieri, giocolieri, opportunisti della cadrega, ballerini, ex di Forza Italia, ex di tutto...
Il problema è che non è solo una questione di verde. È un sistema di abbandono generalizzato.
Se fosse arte, la chiameremmo “Insostenibile leggerezza dell'erba alta”. Ma non è arte.
C’è una nuova pedagogia urbana in atto. Non si insegna più l’educazione civica, ma la rassegnazione sistemica. L’obiettivo non è più migliorare le città, ma convincere i cittadini ad accettarle così come sono. Il problema non è l'erba alta: è pretendere che venga rimossa. Il problema non è l’appalto milionario: è che si fanno troppe domande.
È in questo clima tossico che si muovono oggi molti amministratori locali, specialmente quelli “giovani” (per la cronaca Piastra governa da più di 15 anni), colti, progressisti, innamorati della propria idea di mondo, ma incapaci di guardare giù dal balcone. Hanno imparato che basta infilare parole come inclusione, sociale, sostenibile dentro un bando per blindarlo. E poi — se tutto va male — c’è sempre il greenwashing, il ricatto ecologista, l’ape regina che non trova più i fiori.
Così, ogni angolo di degrado viene giustificato da un nobile principio. L’erba non si taglia? È per salvaguardare gli insetti impollinatori. Le cooperative fanno un lavoro approssimativo? È per dare una mano ai soggetti fragili. I cestini traboccano? Magari è colpa tua, cittadino che consumi troppo, che vivi troppo, che osi ancora buttare via qualcosa invece di fonderlo nel ciclo infinito della materia.
Chi protesta viene guardato con sospetto. Reazionario, meloniano, disinformato. O magari solo fastidioso. Perché se non capisci che le città devono diventare imperfette per forza di cose, allora sei fuori dal nuovo patto urbano. Quel patto in cui l’amministrazione non risolve, ma ti educa a sopportare. In cui non taglia l’erba, ma ti spiega con un post quanto è bello vederla crescere libera.
E allora ecco che le giunte municipali diventano gruppi di storytelling, che producono narrazioni, slide, conferenze e post. Il vero problema è comunicare bene il fallimento, renderlo accettabile, ammantarlo di progresso, renderlo parte della tua nuova identità civica.
La verità è che una strada invasa dall'erba non è inclusione. Un parco lasciato al degrado non è equità sociale. È solo abbandono. E chi governa dovrebbe occuparsene. Punto.
Il paradosso è questo: una classe politica che non governa più, ma predica. Che non fa, ma giustifica. E che ha trasformato le sue carenze in dogmi. La città è sporca? Sei tu che non la capisci. È disordinata? È colpa del cambiamento climatico, dei tagli statali, della guerra in Ucraina. Tutto, tranne l’evidenza: che sono loro a non fare il minimo sindacale.
Ecco perché bisogna riprendere a pretendere l’ovvio. Che le città siano pulite, sicure, curate. Che chi amministra risponda con i fatti, non con gli hashtag. Che il “sociale” non diventi la foglia di fico dietro cui nascondere inefficienza, opacità e clientele.
Il degrado non è sostenibile. L’abbandono non è una politica. Ci vuole coraggio per dirlo? No. Ci vuole solo onestà.
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