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Il colpo del secolo: Vincenzo Peruggia ruba la Gioconda e la rende immortale

Nel 1911 un artigiano italiano riuscì a beffare il Louvre e a scomparire con il capolavoro di Leonardo da Vinci per oltre due anni. Un furto clamoroso che trasformò la Gioconda in un’icona mondiale, più potente di qualunque mito

Il colpo del secolo: Vincenzo Peruggia rubala Gioconda e la rende immortale

Il colpo del secolo: Vincenzo Peruggia rubala Gioconda e la rende immortale

Il furto del Louvre di domenica 19 ottobre non è stato il più sensazionale. Il più audace, il più incredibile, il più cinematografico resta quello del 21 agosto 1911, quando un uomo qualunque – un artigiano italiano con un berretto bianco e una tuta da lavoro – si portò via di nascosto la Gioconda di Leonardo da Vinci. Non un ladro professionista, non un genio del crimine, ma Vincenzo Peruggia, ventinovenne di Dumenza, in provincia di Varese, emigrato a Parigi per lavorare al Louvre come semplice artigiano addetto alle cornici e alle vetrine. Un uomo che, con il suo gesto, rese immortale il quadro più celebre del mondo.

Perugia

Quel lunedì mattina, il museo era chiuso al pubblico, come ogni settimana. Le gallerie erano silenziose, i corridoi deserti, la luce filtrava appena dai lucernari. Peruggia entrò come sempre, indossando la divisa bianca dei custodi, e salì verso la Salon Carré, dove la Gioconda era appesa su un muro fra altri capolavori. Nessuno poteva immaginare che, in quel silenzio, un uomo solo stesse per compiere il furto più famoso della storia dell’arte. Con calma e precisione, staccò il dipinto dai suoi quattro ganci di ferro, lo avvolse in una giacca bianca, e scese per una scala di servizio. Quando trovò una porta chiusa, la smontò con un cacciavite: uscì in un cortile laterale e, senza essere visto da nessuno, si dileguò per le strade di Parigi con il sorriso di Monna Lisa sotto il braccio.

Il giorno dopo, il pittore Louis Béroud, frequentatore abituale del museo, si accorse che qualcosa non andava. Era venuto per copiare il dipinto, come faceva spesso, ma trovò solo la cornice vuota e la teca appoggiata al pavimento. All’inizio credette che l’opera fosse stata portata in laboratorio per una pulizia, ma quando chiese spiegazioni ai custodi, scattò l’allarme. La Gioconda era sparita. La notizia si diffuse in poche ore in tutta Parigi e poi nel mondo intero: i giornali titolarono a caratteri cubitali, il Louvre venne chiuso per una settimana e i direttori dei musei di mezza Europa offrirono collaborazione.

Fu un terremoto. Nessuno riusciva a capacitarsi di come fosse stato possibile rubare un capolavoro simile da uno dei musei più sorvegliati del mondo. La polizia brancolava nel buio. Si arrivò perfino a sospettare gli stessi artisti: Guillaume Apollinaire, noto per i suoi atteggiamenti provocatori, venne arrestato e interrogato. Lo stesso accadde a Pablo Picasso, che si trovò coinvolto in un’inchiesta surreale, vittima della sua fama e del suo legame con gli ambienti più audaci dell’arte parigina. Entrambi furono poi scagionati, ma l’immagine di un possibile “furto intellettuale” fece scalpore.

Intanto, il ladro viveva la sua vita come se nulla fosse. Vincenzo Peruggia abitava in Rue de l’Hôpital Saint-Louis, in una stanza minuscola e spoglia. Sotto il letto, in una cassa di legno chiusa a chiave, giaceva la Gioconda. Lì rimase per più di due anni. L’uomo ogni tanto la tirava fuori, la contemplava, forse le parlava. Secondo alcune testimonianze, la posava su un tavolo e la guardava per ore, convinto di averla “salvata”. Nella sua mente, il furto non era un crimine, ma un atto patriottico: pensava che Leonardo da Vinci l’avesse dipinta per l’Italia e che fosse stata portata in Francia come bottino dalle truppe di Napoleone. Una convinzione errata – perché Leonardo l’aveva portata con sé in Francia quando entrò al servizio di Francesco I – ma che Peruggia sosteneva con orgoglio.

Per due anni il mondo intero continuò a speculare sulla sorte della Gioconda. Si parlava di furti internazionali, di ricchi collezionisti segreti, di contrabbandieri d’arte. Alcuni pensavano che il quadro fosse stato distrutto, altri che fosse nascosto in un monastero. Il mistero cresceva, alimentando la leggenda. Intanto, il Louvre si adeguava, potenziando la sicurezza e installando nuove teche: era nata l’idea moderna della “protezione museale”, figlia di quel clamoroso colpo.

Nel dicembre del 1913, Peruggia decise di agire. Scrisse all’antiquario fiorentino Alfredo Geri, presentandosi come un patriota disposto a “restituire” l’opera all’Italia. Firmò la lettera con lo pseudonimo “Leonardo”. Si accordarono per incontrarsi a Firenze, in una camera dell’Hotel Tripoli-Italia, nei pressi di piazza della Signoria. Lì, l’11 dicembre, Peruggia si presentò con una valigia pesante. La aprì davanti a Geri e al direttore della Galleria degli Uffizi, Giovanni Poggi, rivelando il dipinto perfettamente conservato. “Eccola, è tornata a casa”, pare abbia detto con un tono solenne. I due lo rassicurarono, ma appena uscì dalla stanza fu arrestato dai carabinieri.

La Gioconda fu immediatamente portata agli Uffizi, dove rimase per un periodo di esposizione che attirò folle immense. Da Firenze passò a Roma e poi a Milano, in un tour trionfale che sembrava una processione laica. Gli italiani accorrevano da ogni città per vederla, come se quel ritorno fosse una rivincita nazionale. Dopo pochi mesi, però, il governo italiano restituì ufficialmente l’opera alla Francia. Il 4 gennaio 1914 la Gioconda tornò al Louvre, scortata come una reliquia di Stato.

Nel giugno 1914 si tenne il processo a Firenze. Vincenzo Peruggia confessò tutto senza esitazione. Raccontò di aver agito da solo, di aver amato il quadro fin da quando lo vedeva appeso alle pareti del museo. Disse che non lo aveva fatto per soldi, ma per patriottismo. Le sue parole, in aula, suscitarono una curiosa simpatia. L’opinione pubblica italiana lo trasformò quasi in un eroe: un povero artigiano che, con un gesto simbolico, aveva “ripreso ciò che era nostro”. La giuria lo condannò a un anno e quindici giorni, ma la pena fu ridotta a sette mesi. Dopo pochi mesi era libero.

Il destino di Vincenzo Peruggia si concluse lontano dai riflettori. Tornò in Francia, si sposò, aprì un modesto negozio di vernici e morì nel 1925, a 44 anni, dimenticato dai più. Ma la sua impresa restò nella leggenda. Fu lui, più di chiunque altro, a trasformare la Gioconda da capolavoro rinascimentale in fenomeno mondiale. Prima del furto, pochi la conoscevano davvero. Dopo, divenne un’icona planetaria, il volto più famoso del pianeta, simbolo di bellezza e mistero, oggetto di desiderio e di ironia, dai poeti ai pubblicitari, dai pittori ai turisti.

Quel sorriso, che aveva attraversato i secoli, grazie a Peruggia attraversò anche la cronaca, diventando mito. La sua assenza fece più rumore della sua presenza. Il muro vuoto del Louvre, fotografato dai giornali, divenne il manifesto della fragilità dell’arte e della sua potenza evocativa. Da quel momento la Gioconda smise di essere un semplice dipinto per diventare una leggenda vivente, una star globale, un simbolo della cultura stessa.

Oggi, protetta da vetri antiproiettile, guardata da telecamere e sorvegliata da guardie armate, la Gioconda continua a sorridere a milioni di visitatori ogni anno. E forse, dietro quel sorriso, c’è ancora un’ombra d’ironia: la consapevolezza che, per diventare eterna, aveva avuto bisogno di un ladro. Un muratore di Dumenza, un uomo qualunque, un patriota illuso che, senza saperlo, aveva compiuto l’impresa che nessun artista o collezionista avrebbe mai osato. Un gesto che non solo cambiò per sempre la storia dell’arte, ma rese immortale il sorriso più enigmatico del mondo.

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