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L'enorme conflitto di interessi al centro del cessate il fuoco a Gaza guidato da Jared Kushner

Tra Sharm el-Sheikh e Washington, il genero di Donald Trump torna sulla scena internazionale come mediatore nel cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Ma il suo doppio ruolo – negoziatore e investitore miliardario – solleva più di un dubbio: è diplomazia o business camuffato?

L'enorme conflitto di interessi al centro del cessate il fuoco a Gaza guidato da Jared Kushner

Jared Kushner con Donald Trump

Una scena paradossale e carica di tensione: un uomo in abito navy e occhiali da sole neri scende da un SUV a Sharm el-Sheikh, nel cuore del negoziato per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Quel volto è quello di Jared Kushner, genero dell’ex presidente Donald Trump, una figura che continua a dividere l’opinione pubblica internazionale. Senza alcun incarico diplomatico ufficiale, Kushner è tornato a muoversi sulla scacchiera mediorientale, agendo da emissario informale in uno dei momenti più delicati degli ultimi anni. Dietro la sua immagine patinata, tuttavia, si nasconde una trama intricata di interessi economici, rapporti personali e calcoli politici che gettano più di un’ombra sull’integrità del processo negoziale.

trattative

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Negli ultimi mesi, Kushner ha assunto un ruolo cruciale nelle trattative di Sharm el-Sheikh, lavorando fianco a fianco con Steve Witkoff, inviato ufficiale della Casa Bianca, per elaborare un piano che prevede la liberazione degli ostaggi israeliani e un parziale ritiro delle forze di Tel Aviv dalla Striscia di Gaza. Dopo settimane di incontri, il gabinetto israeliano ha approvato il piano il 9 ottobre 2025. Secondo le anticipazioni, il documento punta a creare un’“alternativa praticabile” alla governance di Gaza, in modo da indebolire Hamas e restituire stabilità alla regione. Se tale alternativa avrà successo, Hamas fallirà e Gaza non sarà più una minaccia per Israele, ha dichiarato Kushner, sintetizzando la filosofia del progetto.

Ma la sua presenza sul tavolo negoziale ha sollevato una serie di interrogativi che vanno ben oltre la diplomazia. Kushner non è un diplomatico, bensì un uomo d’affari. È infatti il fondatore di Affinity Partners, una società di investimento che gestisce miliardi di dollari provenienti da fondi sovrani dell’Arabia Saudita, del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti. Paesi che, guarda caso, giocano un ruolo decisivo nello stesso scacchiere politico ed economico in cui Kushner oggi si muove come mediatore. È difficile, per chi osserva dall’esterno, non vedere un potenziale conflitto di interessi grande quanto il Mar Rosso: mentre l’ex consigliere di Trump negozia un accordo di pace, i suoi affari potrebbero beneficiare direttamente delle conseguenze economiche e geopolitiche della stabilità regionale.

Gli analisti internazionali non nascondono le loro perplessità. Parlano di “diplomazia d’affari”, di una nuova forma di potere in cui le relazioni economiche diventano la chiave per ottenere risultati politici. Una miscela che può sembrare pragmatica, ma che rischia di minare la fiducia e la trasparenza dei processi diplomatici. Alcuni osservatori notano che l’approccio di Kushner è lo stesso che lo aveva già caratterizzato ai tempi degli Accordi di Abramo: meno protocolli, più contatti diretti, meno burocrazia, più “deals”. Un metodo che piace a Trump, ma che lascia aperte domande su chi, davvero, tragga vantaggio da questi accordi.

La Casa Bianca, interpellata sulle accuse di conflitto d’interessi, ha respinto ogni accusa. Secondo il portavoce, Kushner agisce come consulente esterno grazie alla sua “approfondita conoscenza della regione” e alla rete di contatti costruita durante gli anni dell’amministrazione Trump. Nessuna interferenza economica, assicurano. Il suo contributo è esclusivamente diplomatico, basato su relazioni personali con i leader arabi, sostengono da Washington. Una difesa che, però, lascia freddi molti esperti, per i quali l’intreccio tra finanza e politica rimane evidente e pericoloso.

Nel frattempo, la realtà sul campo è ben lontana dall’essere pacificata. Le discussioni di Sharm el-Sheikh e gli incontri successivi a Gerusalemme hanno richiesto un impegno estenuante: Kushner e Witkoff avrebbero dormito solo poche ore per notte, tra briefing, viaggi e pressioni incrociate. Eppure la situazione resta fragile. Ogni nuovo attacco, ogni bomba lanciata su Gaza, può mandare in fumo settimane di trattative. Lo dimostra la reazione militare israeliana di pochi giorni fa, che ha rischiato di far saltare tutto.

La strategia di Kushner rimane quella di sempre: puntare sul risultato immediato, sull’accordo rapido, sull’effetto annuncio. Meglio ottenere un “sì” adesso e definire i dettagli dopo, avrebbe confidato ad alcuni collaboratori. Un metodo da uomo d’affari, più che da diplomatico. E proprio qui sta il cuore del problema: il confine sempre più sottile tra il negoziatore politico e l’imprenditore che tratta il futuro di Gaza come una “operazione da chiudere”.

Il successo iniziale dei colloqui non può essere separato dal fitto intreccio di rapporti personali che Kushner intrattiene con i leader del Golfo e con i grandi investitori della regione. Il rischio è che la pace diventi un prodotto, una merce da vendere, e non un valore da costruire. Una logica che, se portata alle estreme conseguenze, trasforma la diplomazia in un’appendice del capitalismo globale: non più un tavolo di mediazione tra popoli, ma un laboratorio di affari travestito da processo di pace.

Il coinvolgimento di Jared Kushner nei negoziati per il cessate il fuoco a Gaza rappresenta dunque un caso emblematico di quella che molti definiscono “diplomazia ibrida”. I confini tra politica, affari e interessi personali si fanno sempre più sfumati, fino quasi a scomparire. Mentre il mondo applaude al fragile accordo e si parla di “speranza”, resta sul tavolo una domanda inquietante: quanto di quella speranza è autentica, e quanto invece è costruita per sostenere un equilibrio economico che conviene solo a pochi?

In un contesto geopolitico esplosivo come quello mediorientale, ogni passo, ogni parola, ogni stretta di mano può avere conseguenze globali. Ed è proprio per questo che il ruolo di chi agisce dietro le quinte — contemporaneamente mediatore, consigliere e uomo d’affari — va osservato con lucidità e spirito critico. Perché quando la pace diventa un affare, il rischio è che la giustizia, la verità e la trasparenza restino fuori dalla sala dei negoziati.

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