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17 Ottobre 2025 - 22:10
Hannibal Gheddafi, libero dopo undici anni di detenzione: il fantasma di Musa al Sadr riemerge dal passato
Nel contrasto tra passato e presente, a Beirut si apre un nuovo capitolo legale che coinvolge uno dei nomi più controversi della storia recente: Hannibal Gheddafi, figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi. Dopo undici anni di detenzione senza processo, la giustizia libanese ha autorizzato il suo rilascio dietro una cauzione da 11 milioni di dollari e con un divieto di espatrio di due mesi. Una decisione che arriva dopo un decennio di incertezze e che riporta alla luce uno dei casi più oscuri e simbolici del Medio Oriente contemporaneo: la scomparsa nel 1978 dell’imam Musa al Sadr, guida spirituale della comunità sciita libanese, figura di straordinaria influenza e, ancora oggi, ferita aperta nella memoria collettiva del Paese dei cedri.
Per oltre dieci anni, Hannibal Gheddafi è stato detenuto in Libano in un limbo giuridico che ha più volte attirato le critiche delle organizzazioni per i diritti umani. Arrestato nel 2015, in circostanze mai del tutto chiarite — secondo alcuni rapito al confine siriano e consegnato alle autorità libanesi —, è stato accusato non di aver partecipato alla scomparsa dell’imam, ma di possedere informazioni utili sul suo destino. Una posizione paradossale, considerando che nel 1978 Hannibal aveva appena due anni. Eppure, per oltre un decennio, è rimasto imprigionato in una cella sotterranea a Beirut, in condizioni che più fonti internazionali hanno definito disumane: senza luce naturale, con spazi ridotti e un accesso minimo all’assistenza sanitaria. Negli anni, più volte ha denunciato il proprio stato di salute, arrivando anche a intraprendere uno sciopero della fame nel 2023. Il suo legale ha parlato di “detenzione arbitraria”, sottolineando come nessun tribunale libanese abbia mai formalizzato un capo d’imputazione preciso.
Per comprendere la portata del caso bisogna tornare al 31 agosto del 1978. Quel giorno, Musa al Sadr — figura carismatica e ponte tra le diverse anime del Libano — scomparve nel nulla dopo una visita ufficiale in Libia. Con lui sparirono due suoi collaboratori, Sheikh Mohammad Yaacoub e Abbas Badreddine. Secondo la versione ufficiale libica dell’epoca, il religioso avrebbe lasciato Tripoli diretto verso Roma, ma l’Italia negò subito che fosse mai giunto nel Paese. Da allora, nessuna traccia. Per la comunità sciita libanese, la sua assenza è diventata un simbolo, un trauma collettivo e un enigma politico irrisolto. Al Sadr aveva fondato scuole, ospedali e soprattutto il movimento Amal, che ancora oggi gioca un ruolo chiave nella politica del Paese. La sua scomparsa, nel pieno delle tensioni mediorientali e del regime di Gheddafi, ha alimentato per decenni sospetti, teorie, accuse e rappresaglie diplomatiche.
Il governo libico di allora, guidato da Muammar Gheddafi, negò sempre ogni responsabilità. Ma la convinzione che l’imam fosse stato trattenuto o ucciso in Libia divenne presto radicata nell’opinione pubblica libanese. Da allora, il suo nome è diventato un terreno di scontro politico e religioso. Ogni tentativo di riaprire il caso ha trovato davanti a sé una muraglia di silenzi e di veti incrociati. Negli anni successivi alla caduta del regime gheddafiano, diverse delegazioni libiche si sono recate a Beirut per discutere di cooperazione giudiziaria. Tuttavia, nessun passo concreto è stato fatto. La verità su Musa al Sadr rimane avvolta dal mistero, tra documenti scomparsi, testimonianze contraddittorie e rapporti secretati. Alcune inchieste giornalistiche, come quella della BBC, hanno ipotizzato che il corpo del religioso potesse essere stato ritrovato in una morgue segreta in Libia nel 2011, ma la famiglia dell’imam ha sempre respinto queste ricostruzioni come poco attendibili.
In questo contesto, la detenzione di Hannibal Gheddafi è diventata uno strumento di pressione politica, più che un atto di giustizia. La sua prigionia è stata utilizzata da alcuni come leva diplomatica nei confronti del governo di Tripoli, oggi frammentato tra poteri rivali. Lo stesso ministero della Giustizia libanese, in più occasioni, ha lasciato intendere che la sua sorte potesse dipendere dalla collaborazione della Libia nell’inchiesta sull’imam. Una dinamica che ha suscitato critiche dentro e fuori il Libano, dove numerosi giuristi hanno parlato apertamente di “ostaggio politico”.
La recente decisione del giudice Zaher Hamadeh, che ha firmato l’ordine di rilascio dietro cauzione, non chiude però la vicenda. La somma richiesta — 11 milioni di dollari — è stata definita “punitiva” dagli avvocati difensori, che hanno annunciato un ricorso. Hannibal, soggetto a sanzioni internazionali che bloccano i suoi conti e i beni della famiglia, difficilmente potrà pagare una cifra simile. E anche se lo facesse, resterebbe prigioniero in un altro modo: costretto a restare in Libano, con i movimenti sorvegliati e un processo ancora lontano dall’essere definito. Il suo legale, Laurent Bayon, ha dichiarato che il rilascio su cauzione non rappresenta una vera libertà ma una misura “politicamente conveniente” per placare le pressioni internazionali e le tensioni interne al Paese.
Il caso ha sollevato ancora una volta interrogativi più ampi sulla tenuta del sistema giudiziario libanese, spesso accusato di cedere alle ingerenze politiche e di operare in condizioni di opacità. In molti, tra magistrati e organizzazioni per i diritti civili, vedono nella vicenda di Hannibal Gheddafi l’emblema di un sistema incapace di separare giustizia e potere. Per la famiglia di Musa al Sadr, invece, il rilascio rappresenta una ferita riaperta: un gesto percepito come un affronto alla memoria del loro leader spirituale. Ma anche tra i fedeli dell’imam c’è chi si interroga sull’effettiva utilità di una detenzione che non ha portato alcuna nuova verità.
Intanto, da Tripoli, il procuratore generale Seddik al-Sour ha offerto la collaborazione delle autorità libiche per far luce sul caso al Sadr, chiedendo in cambio la liberazione definitiva di Hannibal. Segno che la vicenda continua a essere terreno di negoziazioni sottili tra Stati e poteri. Dietro la facciata giudiziaria si muove un gioco più grande, che intreccia politica, religione e memoria storica. Ogni decisione su Hannibal Gheddafi si riflette sul fragile equilibrio tra Libano e Libia, tra passato e presente, tra giustizia e ragion di Stato.
Nonostante la liberazione condizionata, Hannibal resta oggi simbolo di una giustizia sospesa. Per i suoi sostenitori, è la vittima di una persecuzione politica, pagata sulla base del cognome che porta. Per altri, è l’ultimo anello visibile di una catena di misteri che risale all’era del padre e alle ombre della Libia di allora. Le sue parole, durante l’ultima udienza, sono rimaste scarne e spiazzanti: “Non so. Non ricordo”. Una frase che riassume perfettamente l’ambiguità di un’intera vicenda.
A distanza di quasi mezzo secolo dalla sparizione di Musa al Sadr, il Libano continua a fare i conti con la sua storia irrisolta. Le stesse domande restano sospese: dove finisce la giustizia e dove comincia la politica? Cosa significa davvero “memoria” in un Paese in cui ogni processo rischia di diventare un’arma? La liberazione di Hannibal Gheddafi è forse un punto di svolta, ma non una conclusione. È un gesto che segna la stanchezza di un sistema e la persistenza di un mistero. Il figlio dell’ex dittatore lascia il carcere, ma il caso resta imprigionato nel tempo, in quell’eterno equilibrio instabile tra verità e potere che da decenni tiene il Libano sospeso tra la storia e l’oblio.
I rapporti tra Italia e Libia hanno rappresentato nel corso dei decenni un crocevia complicato, fatto di memoria coloniale, interessi energetici, migrazioni, equilibri geopolitici e momenti di rottura. La presenza storica italiana in Libia, prima come potenza coloniale e poi come interlocutore privilegiato nonostante le tensioni, ha reso particolarmente denso il percorso diplomatico e politico.
Fin dall’indipendenza della Libia nel 1951, le relazioni tra i due Paesi furono condizionate dal passato coloniale: l’Italia aveva esercitato il dominio su quel territorio tra il 1911 e il 1943, e dopo la guerra il nuovo stato libico ereditò un’eredità conflittuale, con rivendicazioni su proprietà confiscate e risarcimenti. Quando nel 1969 Gheddafi salì al potere con il colpo di stato che abbatté la monarchia, i rapporti con Roma si fecero subito complessi: nel 1970 il nuovo regime espulse gli italiani residenti e confiscò i loro beni, segnalando che il riconoscimento post-coloniale non poteva significare la perpetrazione di prerogative occidentali. Quella scelta segnò una cesura netta, che rimase come fondo oscuro nei rapporti futuri.
Negli anni Settanta e Ottanta, le relazioni tra Italia e Libia oscillavano tra antagonismo ideologico e pragmatismo energetico. Nonostante la retorica anti-occidentale del regime di Gheddafi, l’Italia rimase un partner economico chiave, grazie soprattutto ai legami con Eni nel settore petrolifero. Ma gli attriti politici non mancavano: Gheddafi appoggiava movimenti radicali nel Mediterraneo e la politica estera libica si opponeva spesso agli interessi italiani nell’area. Le crisi diplomatiche si accumulavano, la fiducia era ridotta.
Fu con l’arrivo di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana che si inaugurò un tentativo di svolta consolidata. A partire dai primi anni Duemila, Roma cercò di ricostruirsi una “relazione speciale” con Tripoli. Nel 2008, in Bengasi, Berlusconi e Gheddafi firmarono il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, che rappresentò un passo simbolico: l’Italia riconosceva i propri errori coloniali e si impegnava a versare 5 miliardi di dollari in venti anni attraverso investimenti, mentre la Libia si impegnava a collaborare contro l’immigrazione clandestina, pattugliamenti congiunti e sorveglianza satellitare delle frontiere. Quel trattato fu presentato come la chiusura definitiva delle dispute del passato e come il fondamento di una nuova partnership. In quel contesto, Berlusconi pronunciò parole che suonavano come una forma di “politica dell’apologia”: ammettere colpe e volgere lo sguardo verso il futuro di cooperazione. Il trattato puntava anche a facilitare l’ingresso delle aziende italiane sul mercato libico, specie nei settori delle infrastrutture, energia e trasporti.
Con quel patto, l’Italia sperava di emergere come interlocutore privilegiato in Libia e di avere un peso determinante nella politica libica futura. E in effetti, nei mesi successivi Roma ottenne l’impegno di Tripoli a frenare i flussi migratori verso le coste italiane, e vennero avviati accordi concreti di contrasto alle partenze. Tuttavia quelle intese furono spesso denunciate da ONG e critici per il rischio di trasferire responsabilità migratorie verso la Libia, dove le condizioni dei migranti erano e rimangono drammatiche.
La crisi del 2011, che portò alla rivolta contro il regime Gheddafi e all’intervento internazionale, segnò una rottura irreversibile in quell’intesa di fiducia. L’Italia, pur essendo vincolata al trattato di amicizia, partecipò alla cooperazione internazionale e alla coalizione contro il regime nel quadro delle risoluzioni ONU. Roma congelò gli asset legati al regime Gheddafi e riconobbe il Consiglio nazionale di transizione libico come autorità legittima, anticipando il principio che bisognava voltare pagina dopo decenni di rapporti ambivalenti. Dopo la caduta di Gheddafi, Eni tornò rapidamente ad operare in Libia, riprendendo piattaforme e progetti petroliferi nel tentativo di mantenere le quote storiche nel settore energetico.
Negli anni seguenti, l’Italia tentò di gestire l’instabilità libica con una politica che combinava rilanci economici e contenimento dei flussi migratori: il dossier libico divenne centrale nella politica estera italiana, perché da lì passava la sicurezza del Mediterraneo e l’ordine interno. I governi successivi, pur con stili diversi, si confrontarono con la difficoltà di dialogare con un Paese diviso in governi rivali, milizie armate, percorsi di transizione politici incerti. Il Memorandum Italia-Libia del 2017 stabilì un accordo di cooperazione in materia di sviluppo, contrasto all’immigrazione irregolare, traffico di esseri umani e sorveglianza delle frontiere. Con quel patto, l’Italia affidò alle autorità libiche – e in particolare alla Guardia costiera libica – il compito di fermare le partenze dal Mediterraneo centrale, pagandole e dotandole di mezzi. Questo modello fu molto controverso perché implicava che migranti intercettati in mare venissero riportati nei centri libici, dove molte segnalazioni indicavano abusi, torture e condizioni violate. Ma per Roma era un compromesso cui molti governi ritenevano di non poter rinunciare, perché il peso delle crisi migratorie era percepito come emergenza interna.
Con la guerra civile continua in Libia, con le amministrazioni frazionate di Tripoli, Bengasi e altre zone sotto il controllo di milizie, l’Italia ha dovuto modulare la propria politica con pragmatismo. Le rotte migratorie, la sicurezza, l’energia sono rimaste leve fondamentali per mantenere un canale di interlocuzione, anche fragile. Nel corso degli ultimi anni, il rapporto è rimasto centrale: Roma ha proposto accordi energetici, cercato dialoghi con autorità libiche riconosciute internazionale, sostenuto processi di stabilizzazione e cooperazione in tema di migranti. Il riavvio dei voli civili diretti tra Italia e Libia è stato un segnale simbolico di un nuovo slancio nei rapporti, dopo anni di assenza totale di collegamenti aerei diretti. Nonostante la precarietà politica libica, l’Italia continua a spingere per essere protagonista nel Mediterraneo centrale. In questo percorso, l’eredità di Berlusconi e del trattato del 2008 resta un punto di riferimento ambivalente: da un lato testimone di un desiderio di riconciliazione storico-politica, dall’altro simbolo delle contraddizioni insite nei rapporti fra Paesi con rapporti asimmetrici di potere, memoria e fragilità. La fine del regime Gheddafi ha dissolto l’asse monolitico a cui l’Italia faceva riferimento, ma non ha cancellato il bisogno reciproco di una relazione che resti significativa. L’opinione pubblica italiana guarda con sospetto quei patti che riconsegnano gestione dei flussi a un territorio instabile; quella libica accoglie le aziende italiane con ambiguità: partner utile, ma anche segno di dipendenza. Il bilanciamento fra interesse nazionale, responsabilità internazionale e memoria storica è il filo che ancora oggi attraversa i rapporti Italia-Libia, e che nessun governo può ignorare.
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