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Cronaca

Vogliono far saltare la verità. La bomba contro Ranucci è un attacco all’Italia libera

Un’auto distrutta, un ordigno davanti casa, un messaggio chiaro: zittire chi racconta. Ma la paura non basta a spegnere la voce di Sigfrido Ranucci e di chi ancora crede che la verità non si negozia, nemmeno con il tritolo.

Vogliono far saltare la verità. La bomba contro Ranucci è un attacco all’Italia libera

Sigfrido Ranucci

Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre, a Pomezia, un boato scuote il silenzio. È un’esplosione breve, violenta, improvvisa. L’auto di Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, distrutta da un ordigno piazzato davanti alla sua abitazione. È un atto che riporta l’Italia indietro di decenni, a quei “tempi bui” evocati dal procuratore Francesco Lo Voi, quando la parola verità poteva costare la vita, a quando l’informazione era un territorio di guerra. L’ordigno, posizionato tra due vasi, non è un messaggio generico: è un avvertimento preciso, studiato, lucido. Un gesto che, per violenza e significato, non si vedeva da anni. Eppure, chi conosce la storia del giornalismo italiano sa che il filo di sangue e paura che lega cronisti e potere non si è mai spezzato.

C’è un’immagine che resta negli occhi: le lamiere accartocciate, la carrozzeria bruciata, il fumo che sale nell’alba di una periferia romana. E c’è un’altra immagine, invisibile ma più profonda, che riguarda la libertà di tutti noi. Perché ogni volta che una bomba esplode contro un giornalista, a saltare in aria non è solo un’auto, ma un pezzo della nostra democrazia.

Ranucci non è un cronista qualunque. È da anni il volto di una trasmissione che ha scavato dove altri si sono fermati, che ha raccontato gli intrecci tra affari, politica, corruzione, mafia, che ha osato guardare dietro le quinte del potere. E lo ha fatto pagando un prezzo altissimo: centinaia di querele, attacchi, campagne d’odio, insulti, minacce. L’ha fatto sapendo di essere nel mirino, ma continuando. Con la calma di chi ha scelto la verità come mestiere, e la verità non si negozia.

Forse qualcuno pensava che bastasse il rumore del tritolo per farlo tacere. Ma la storia italiana insegna che i giornalisti, anche feriti, anche soli, non si sono mai piegati. Non lo fece Giancarlo Siani, che a 26 anni pagò con la vita i suoi articoli sulla camorra. Non lo fece Mauro De Mauro, rapito e mai più ritrovato, né Peppino Impastato, fatto esplodere lungo una ferrovia perché osava ridere dei boss. Non lo fece Carlo Casalegno, colpito dalle Brigate Rosse, né Walter Tobagi, ucciso da chi non sopportava il coraggio della parola. E non si arrese Maurizio Costanzo, che nel 1993 scampò a un’autobomba a Roma, una Fiat Uno imbottita di cento chili di tritolo parcheggiata proprio dove passava ogni sera. Si salvò per un caso, ma da quella notte non parlò più di mafia. Aveva visto in faccia la morte e aveva capito che il confine tra libertà e silenzio può essere largo pochi centimetri, quanto la lamiera di una portiera.

A differenza di allora, oggi le minacce non arrivano solo dai clan o dai terroristi. Arrivano da ogni direzione. Dai tribunali che usano le querele come armi. Dai politici che delegittimano. Dalle aziende che tagliano programmi scomodi. Dalla rete che amplifica odio e insulti. È un terrorismo nuovo, invisibile, ma non meno violento. Ranucci lo ha detto più volte: «Una volta sparavano, oggi tentano di distruggerti con le denunce, con la delegittimazione, con il sospetto.» Eppure, per qualcuno, questo non bastava. Serviva il fuoco, la paura fisica, il messaggio definitivo: “smettila di scavare”.

Ma se c’è una cosa che chi colpisce non capisce, è che la paura, quando tocca chi vive di verità, non genera il silenzio. Genera eco. E quella eco, in queste ore, risuona forte in tutta Italia. Davanti al Centro di Produzione Rai di Torino, i colleghi si sono riuniti in assemblea. Un cartello scritto a mano dice: «Ranucci non sei solo». Parole semplici, ma potenti. Perché dicono che quella bomba non ha colpito solo lui, ma tutti noi. Ogni giornalista che racconta una verità scomoda. Ogni cittadino che ha diritto a sapere. Ogni voce che crede ancora che la democrazia viva di trasparenza, non di paura.

Nel suo lungo cammino professionale, Sigfrido Ranucci ha raccontato storie di mafia, corruzione, inquinamento, appalti, fondi pubblici, abusi, scandali di Stato. Ha portato la telecamera dove nessuno voleva guardare. E l’ha fatto dentro una Rai che non sempre gli è stata amica. Ha ricevuto un procedimento disciplinare per aver parlato in tv di temi “non concordati”, ha subito tagli al suo programma, ha visto crescere la pressione politica attorno a Report. Nonostante tutto, non ha mai smesso di dire che la libertà di informazione non si baratta. Per questo è amato e odiato. Perché in un Paese che preferisce spesso la prudenza al coraggio, lui ha scelto il rischio. E il rischio, in Italia, può costare caro.

Il procuratore Lo Voi ha detto che non bisogna tornare ai tempi bui. Ma quei tempi, forse, non se ne sono mai andati del tutto. Sono rimasti nascosti sotto la superficie, pronti a riemergere. Ogni volta che un cronista viene insultato, ogni volta che un programma viene censurato, ogni volta che la verità diventa “pericolosa”. È una lunga linea di ombre, che attraversa cinquant’anni di storia: dai proiettili di Casalegno al sangue di Siani, dai bossoli davanti alla porta di Ranucci all’ordigno che ne distrugge l’auto. La violenza contro i giornalisti è una costante, che cambia forma ma non sostanza.

Eppure, nonostante tutto, i giornalisti continuano a lavorare. Continuano a chiedere, a cercare, a disturbare. È la loro missione, la loro condanna, la loro gloria. «In qualunque parte del mondo, quando si vogliono spegnere i riflettori su ciò che accade nella società, si colpiscono i giornalisti», ha detto Stefano Tallia, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Ed è così. Colpire un giornalista significa colpire la società intera. Perché il giornalismo non è solo un mestiere: è un servizio pubblico, un presidio civile, una linea di confine tra la verità e il buio.

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In queste ore si moltiplicano le dichiarazioni, le solidarietà, le promesse. Ma basteranno? L’Italia, nel 2025, è scivolata al quarantanovesimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa. Un dato che dovrebbe far tremare chiunque creda ancora nella democrazia. Troppi cronisti lavorano sotto scorta, troppi vengono querelati per intimidazione, troppi vengono lasciati soli. E se anche un volto popolare come quello di Ranucci può essere colpito così, cosa succede ai giornalisti locali, a chi indaga in silenzio nelle province, senza telecamere, senza uffici stampa, senza scorte?

La verità è che oggi, nel nostro Paese, fare giornalismo significa camminare su una linea sottile. E lo si fa non per eroismo, ma per necessità. Perché la libertà non è un lusso. È una fatica quotidiana. È una scelta di responsabilità. È la capacità di raccontare anche quando conviene tacere. «In un Paese democratico non è normale che si usi il tritolo per dire che non si possono trattare certi argomenti», ha detto Cristina Bruno, rappresentante della Cgil Rai. E ha ragione. Non è normale. Ma in Italia, spesso, ciò che non è normale finisce per essere tollerato.

Oggi tocca a Ranucci. Ieri toccò a Saviano, minacciato in aula da un boss dei Casalesi. Prima ancora a Costanzo, a Siani, a Impastato, a Casalegno. È una storia che si ripete, e ogni volta sembra incredibile che accada ancora. Ma accade. Perché dire la verità resta, dopo tutto, il gesto più pericoloso che si possa compiere in Italia. Eppure, è anche l’unico che valga la pena compiere.

Quando, tra le macerie della sua auto, Ranucci è uscito di casa, la notte era ancora piena di fumo. Attorno, il quartiere era sveglio, le luci accese, i volti affacciati alle finestre. Forse, in quel momento, ha pensato a tutti i nomi che lo hanno preceduto. A chi non è sopravvissuto. A chi ha avuto paura ma non si è fermato. Forse ha pensato che la libertà costa sempre qualcosa, e che se smettiamo di difenderla, smettiamo di essere un Paese libero.

Quella bomba, nel suo fragore, non ha fatto solo rumore. Ha riportato la memoria. Ha ricordato a tutti noi che la libertà di stampa non è un diritto acquisito, ma un campo di battaglia. E che chi la difende non è un eroe, ma un cittadino che fa il proprio dovere. È un dovere che oggi riguarda tutti: giornalisti, magistrati, politici, lettori. Perché se accettiamo che qualcuno faccia saltare un’auto per zittire un’inchiesta, allora stiamo accettando che il potere torni a decidere cosa possiamo sapere. E quando il potere decide cosa possiamo sapere, la democrazia è già finita.

Non serve essere d’accordo con Ranucci per capire la gravità di quello che è accaduto. Serve solo avere memoria, coscienza, coraggio. Perché la libertà, quando non la difendi, evapora. E chi colpisce un giornalista, in realtà, colpisce un popolo intero. L’eco di quella esplosione, a Pomezia, non si è ancora spenta. E forse non deve spegnersi. Perché finché resta nell’aria, ci ricorda che la verità è ancora viva. E che nessuna bomba, per quanto potente, potrà mai cancellarla.

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