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16 Ottobre 2025 - 23:25
Landini e Meloni
Un talk show, un microfono, due mondi che si odiano cordialmente. È martedì sera a La7, durante diMartedì, e come sempre il dibattito politico italiano trova il modo di scivolare dal confronto al duello d’onore. Questa volta, l’arma è una sola parola: “cortigiana”.
A pronunciarla, con nonchalance sindacale, è Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, che definisce la premier Giorgia Meloni “cortigiana di Trump”. Un colpo basso o un lapsus colto? Poco importa. In pochi secondi, lo studio di Floris si trasforma nel palcoscenico di una battaglia culturale che mescola grammatica, politica e rancore personale.
Meloni, da par suo, non lascia passare nemmeno un respiro. E come ogni leader 2.0 che si rispetti, sceglie di rispondere non con una conferenza stampa, ma con un post: la definizione di “cortigiana” tratta dai dizionari Oxford Languages e Treccani. “Donna di facili costumi, etèra, prostituta”. Un lessico da bordello che diventa improvvisamente materia di governo.
La premier non si limita alla grammatica: trasforma la replica in un manifesto politico. “Quando la sinistra non sa come attaccare una donna, le dà della prostituta”, scrive indignata. E con un colpo di teatro, ribalta la questione: l’offesa non colpisce lei, ma tutte le donne. Il risultato? Un perfetto ribaltamento retorico: Landini finisce sul banco degli imputati, accusato di sessismo, proprio lui, paladino dei diritti, sindacalista dei lavoratori, progressista di professione.
A quel punto, il leader della CGIL tenta la marcia indietro. “Era un modo di dire, una metafora politica”, spiega. Ma ormai è tardi: il danno linguistico è fatto. Il centrodestra chiede scuse, la sinistra moderata finge imbarazzo e, come sempre accade in questi casi, l’Italia si divide. Da una parte chi difende la libertà di linguaggio, dall’altra chi denuncia il sessismo travestito da ironia.
E così “cortigiana” diventa il nuovo tormentone nazionale, una parola che nessuno osa pronunciare ma che tutti analizzano con finta serietà, tra talk show, editoriali indignati e meme sui social.
Il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, evidentemente obnubilato da un rancore montante (che comprendo), mi definisce in televisione una “cortigiana”.
— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) October 16, 2025
Penso che tutti conoscano il significato più comune attribuito a questa parola, ma, a beneficio di chi non lo… pic.twitter.com/JS51GN7Yn9
Eppure, nel dizionario della storia, “cortigiana” non è sempre stata un insulto. Ai tempi del Rinascimento, era un titolo quasi onorevole: indicava donne colte, intelligenti, capaci di incantare principi e poeti. Poi, lentamente, la parola si è sporcata, scivolando dal salotto alla strada. Oggi è diventata l’ennesimo specchio della nostra ipocrisia linguistica: se la pronunci contro un uomo sei ironico, se la rivolgi a una donna diventi sessista.
Il vero punto, però, non è la parola. È il teatro in cui viene pronunciata. Un’Italia stanca, divisa, pronta a indignarsi per un aggettivo mentre tace su tutto il resto. Le alleanze internazionali, le crisi sociali, i salari, Gaza — tutto sparisce dietro il sipario di una polemica lessicale. Landini voleva denunciare la subalternità politica di Meloni a Trump? Missione fallita: è riuscito solo a farsi accusare di misoginia.
Meloni, invece, ha colto l’occasione per riposizionarsi come vittima nobile di un maschilismo rosso, guadagnando punti tra i suoi e pietà tra i moderati.
Insomma, una lezione perfetta di comunicazione all’italiana: si parla di tutto, tranne che del problema vero. E così, mentre la premier si erge a paladina del femminismo post-fascista e il segretario CGIL arranca tra le virgolette del vocabolario, il Paese scopre che anche le parole hanno un costo politico.
Forse la prossima volta, invece di “cortigiana”, Landini farebbe meglio a usare “consigliera di corte”. Meno poetico, ma almeno non scatena una crisi diplomatica tra Treccani e Palazzo Chigi.
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