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Esteri
16 Ottobre 2025 - 22:28
Nel Mar dei Caraibi, tra acque cristalline e rotte di traffico internazionale, si sta combattendo una guerra che non compare nei bollettini ufficiali, non viene dichiarata al Congresso e non trova spazio nelle prime pagine dei giornali americani. È una guerra silenziosa, condotta dalla più potente marina del mondo contro obiettivi che Washington definisce “narcotrafficanti”. Eppure, di questa campagna militare non si conosce quasi nulla, se non gli effetti: cinque imbarcazioni affondate in meno di due mesi e decine di morti, corpi mai recuperati, identità mai accertate.
L’ultimo episodio, annunciato con toni trionfali il 14 ottobre dal presidente Donald Trump, ha visto la distruzione di una barca in acque internazionali, con la morte di sei uomini etichettati come trafficanti di droga. Nessun nome, nessuna indagine indipendente, nessuna prova pubblicata. Solo un video di pochi secondi, mostrato dallo stesso Trump, in cui si vede un’imbarcazione esplodere dopo essere stata colpita da un missile. Un’immagine tanto spettacolare quanto inquietante.
Dietro la retorica della “lotta al narcotraffico” si nasconde però una strategia ben più ampia e pericolosa. Gli Stati Uniti, con una comunicazione ufficiale al Congresso, hanno definito questo intervento come un “conflitto armato non internazionale” contro i cartelli della droga, equiparando di fatto i narcos a gruppi armati illegali. È un precedente di portata enorme, perché consente all’amministrazione americana di utilizzare l’apparato militare come se si trattasse di un nemico statale, aggirando i vincoli del diritto internazionale e le stesse procedure interne previste per l’uso della forza.
Il dispiegamento è imponente: navi da guerra, droni, aerei di ricognizione e perfino un sottomarino nucleare, a conferma che non si tratta di un’operazione di polizia ma di una vera e propria guerra, combattuta però fuori dai radar mediatici e giuridici.
La Casa Bianca, tuttavia, non ha mai ottenuto un’autorizzazione formale dal Congresso per questo tipo di azioni. I tentativi di imporre limiti al potere presidenziale sono stati sistematicamente bloccati dalla maggioranza repubblicana, lasciando di fatto al presidente carta bianca. È una situazione che molti giuristi definiscono “una zona grigia della legalità”, dove la forza militare agisce senza supervisione democratica.
A preoccupare è soprattutto l’assenza di prove. Nessuna delle cinque imbarcazioni affondate è stata recuperata, e nessuna prova pubblica conferma che trasportassero realmente droga. Le immagini diffuse non mostrano né carichi né sequestri. “Siamo di fronte a una giustizia preventiva applicata sul mare, senza tribunali, senza difesa, senza testimoni”, ha denunciato un analista della Georgetown University. Una guerra, insomma, dove la parola “sospetto” basta per giustificare un missile.
Il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha definito l’operazione americana una “aggressione armata camuffata da guerra antidroga”, accusando Washington di voler destabilizzare il suo governo e mettere le mani sulle immense risorse naturali del Venezuela — petrolio, gas, oro. Maduro ha chiesto la mediazione della diplomazia vaticana per evitare che questa escalation sfoci in un conflitto regionale.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere: Russia e Cina hanno espresso pieno sostegno a Caracas, condannando quella che definiscono “una flagrante violazione della sovranità di uno Stato”. Le navi militari americane si muovono infatti in acque dove le giurisdizioni si intrecciano, alimentando tensioni che rischiano di trasformare i Caraibi in una nuova linea di frattura geopolitica.
Negli Stati Uniti, intanto, crescono le critiche. Il senatore democratico Adam Schiff ha espresso timori che l’azione possa “trascinare il Paese in una guerra senza nome e senza fine”, mentre l’ex ambasciatore per gli affari venezuelani James Story ha avvertito che la strategia rischia di compromettere la cooperazione con gli alleati e di minare la credibilità americana.
Secondo le fonti disponibili, almeno 27 persone sono morte dall’inizio della campagna, anche se il numero reale potrebbe essere molto più alto. Nessuna di queste vittime ha avuto diritto a un processo o a un’identificazione. È il volto oscuro della guerra moderna: droni e missili al posto dei tribunali, comunicati presidenziali al posto delle sentenze.
Sul piano del diritto internazionale, questa operazione rappresenta una frattura profonda nella tradizionale narrativa americana di rispetto per le regole e i diritti umani. Gli Stati Uniti, da sempre autoproclamati garanti dell’ordine mondiale, rischiano di minare proprio quei principi che sostengono di difendere.
Le acque dei Caraibi, un tempo crocevia di pirati e rotte commerciali, sono oggi teatro di un conflitto opaco, dove le onde cancellano le prove e i silenzi coprono le responsabilità. Corpi che scompaiono, verità che affondano, potenze che si osservano da lontano. È la nuova frontiera della guerra invisibile: quella che non si vede, non si discute, ma si combatte ogni giorno, lontano da occhi e coscienze.
Insomma, nel Mar dei Caraibi si combatte una guerra che nessuno ha dichiarato ma che tutti, prima o poi, dovranno riconoscere. Una guerra che parla di potere, di risorse e di dominio geopolitico più che di droga. E che, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, rischia di travolgere molto più di qualche barca di narcotrafficanti.
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