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L'Europa sta studiando un "Muro di droni" per difendersi dalla Russia. Tensioni con la Nato

Un progetto da miliardi per difendere il cielo europeo con intelligenza artificiale e tecnologia avanzata. Tra le parole di Ursula von der Leyen e Mark Rutte, il sogno di un’Europa più autonoma si scontra con la realtà di un’Alleanza Atlantica che non intende cedere il comando

Muro di droni: l’Europa alza lo scudo digitale tra ambizioni e tensioni con la Nato

Von Der Leyen e Rutte

Nei cieli dell’Europa orientale, dove il silenzio assomiglia sempre più a una tregua sospesa, affiorano tensioni invisibili e pericolose. Decine di miliardi di euro, algoritmi sofisticati, alleanze politiche e rivalità strategiche: tutto converge su un’idea che negli ultimi mesi è diventata un obiettivo prioritario in ambienti militari e diplomatici: il cosiddetto muro di droni. Non una barriera di mattoni, bensì una rete cooperante di sorveglianza, intercettazione e neutralizzazione, concepita per difendere i cieli dell’Unione europea e del fianco orientale Nato dalle incursioni aeree ostili. L’Unione europea punta a renderlo operativo entro la fine del 2027, con la piena integrazione prevista tra il 2027 e il 2028, a costo di tensioni con la Nato sul tema della leadership e della gestione.

muro


Alle origini dell’ambizione europea

L’idea del muro di droni emerge come risposta strategica a un’identità militare europea che sente sempre più il bisogno di non delegare tutto agli Stati Uniti. Nella sua Defence Readiness Roadmap 2030, la Commissione ha indicato il progetto come un pilastro imprescindibile per ricostruire una capacità difensiva credibile nel continente. Un sistema strutturato su più livelli – sensori radar, rilevatori elettromagnetici, piattaforme aeree cooperanti, contromisure elettroniche, droni d’intercettazione e unità di reazione – dovrà operare in sinergia tra gli Stati membri, generando una coscienza situazionale pan-europea.

Secondo ambienti comunitari, entro la fine del 2026 si dovrebbero attivare capacità iniziali di rilevamento e risposta limitata, mentre entro il 2027 si punta a una piena operatività del sistema base, collegato alle infrastrutture militari europee e all’architettura della difesa aerea collettiva. Entro il 2028, il muro, affiancato da sistemi tradizionali di difesa, dovrebbe contribuire a proteggere stabilmente il fianco orientale dell’Ue.

Una fonte governativa europea ha confidato che molte delle tecnologie chiave – intelligenza artificiale per l’identificazione automatica dei target, reti di comunicazione resilienti e droni cooperanti autonomi – sono già allo stadio sperimentale nei laboratori industriali del Nord e dell’Est Europa. In particolare, si parla di centri di ricerca in Estonia, Polonia e Lituania, dove startup emergenti stanno sviluppando moduli miniaturizzati di rilevazione elettromagnetica e droni kamikaze adattativi.

Durante la presentazione della roadmap, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha scandito parole che suonano come un manifesto politico: «L’Europa deve imparare a difendersi anche da sola. Dalla Finlandia al Mar Nero, il nostro fianco orientale è lo scudo che protegge tutto il continente. Per questo creeremo un muro digitale e tecnologico, un muro di droni, per difendere ogni centimetro del nostro spazio aereo».

E nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha ribadito: «There is no doubt: Europe’s eastern flank keeps all of Europe safe, from the Baltic Sea to the Black Sea… Europe will defend every inch of its territory».


L’eco della Nato: convergenza forzata o dialettica inevitabile?

A Bruxelles, il muro di droni viene presentato come uno strumento europeo autonomo, ma sul tavolo della sicurezza atlantica la musica cambia. La Nato – attraverso le sue ali difensive e i vertici militari – ha manifestato riserve sulla gestione esclusiva dell’iniziativa. In base a fonti diplomatiche raccolte nei quartieri generali dell’Alleanza, il progetto è definito “promettente, ma embrionale” e merita di essere inserito sotto un comando comune. Per la Nato, la difesa del cielo europeo non può essere circoscritta a linee Ue, ma deve integrarsi con sensori già dispiegati, network di intercettazione e capacità operative condivise. In tale visione, la Nato non abdica al ruolo militare, ma promuove una gestione congiunta, dove l’Ue contribuisce soprattutto con investimenti, standard e regole.

Durante un recente vertice a Bruxelles, il Segretario Generale della Nato Mark Rutte ha dichiarato: «Le nostre difese aeree sono state attivate e hanno garantito la protezione del territorio dell’Alleanza. Gli alleati restano risoluti nel difendere ogni centimetro di territorio Nato. Continueremo a monitorare la situazione e a lavorare con l’Unione europea per rafforzare il nostro fianco orientale».

La frizione non è teorica: si manifesta in ogni tavolo negoziale che riguarda la governance del sistema, la scelta dei responsabili operativi, il diritto di veto sull’intervento, l’interoperabilità e le regole di ingaggio. Diversi Stati membri temono che un’eccessiva “europeizzazione” del settore militare possa indebolire la coesione atlantica, mentre altri – in particolare paesi del nord e dell’est – spingono per una maggiore autonomia strategica.


Dal cielo alla cronaca: il segnale polacco che ha acceso l’Europa

Il muro di droni non è solo una visione futuro-politica: nasce da fatti concreti. Nella notte fra il 9 e il 10 settembre 2025, una flotta di 19–23 droni russi ha attraversato lo spazio aereo polacco per circa sette ore, sorvolando zone delicate, provocando una crisi diplomatica e militare. Alcuni droni sono stati abbattuti: quattro almeno confermati dalle stime ufficiali. Le azioni militari si sono coordinate tra Polonia, Olanda, Italia e altri paesi della Nato, e la Polonia ha invocato l’Articolo 4 del Trattato Atlantico, chiedendo consultazioni urgenti. È seguito il lancio dell’operazione Eastern Sentry, concepita per rafforzare il fianco orientale dell’Alleanza con pattugliamenti aerei, assetti navali e sistemi radar.

Analisti militari considerano quell’incursione un vero e proprio “test di stress” contro i protocolli di reazione della Nato. Gli apparecchi russi hanno volato su rotte lineari, non erratiche, apparentemente per sondare tempi, priorità e meccanismi decisionali degli alleati. Alcuni commentatori l’hanno definita come una prova tattica in vivo, il preludio a nuove strategie ibride.

Quel caso ha accelerato i lavori del muro di droni, servendo da detonatore politico per molti governi finora riluttanti. E ha reso più urgente la domanda: se un paracadute politico-militare non si costruisce in pochi mesi, che cosa rende credibile un progetto su scala europea?


Obiettivi reali e messaggi strategici verso Mosca

Il muro di droni non è soltanto una difesa tecnica, ma un messaggio politico contundente. Rivolto alla Russia e al suo arsenale ibrido, mira a segnare che l’Europa non ammette più passaggi non autorizzati nei cieli sovrani. In parallelo, è anche un segnale di autonomia: l’Ue vuole dimostrare che non è solo un’aggregazione economica, ma che negli scenari di guerra tecnologica può intervenire con mezzi propri.

Il coinvolgimento dell’Ucraina rappresenta un casus crucis. Se accettata, la partecipazione consentirebbe a Kiev di ricevere know-how e nodo operativo difensivo integrato, rafforzando al tempo stesso la rete europea di sorveglianza. Ma ciò implica assunzione di rischio politico: l’Ucraina diventerebbe partner operativo attivo dentro un sistema che sta nella zona grigia tra guerra e deterrenza.

Nel documento congiunto Ue-Nato di ottobre, si legge: «Ukraine is not only a partner in defence but a testing ground for technologies that will define Europe’s future security. The drone wall will ensure that what we have learned from Kyiv’s resilience becomes Europe’s shield».

L’innesto strategico potrebbe estendersi anche oltre i confini formali dell’Ue, coinvolgendo paesi vicini – come Moldavia, Georgia e paesi baltici – purché accettino protocolli comuni, regole di ingaggio condivise e vincoli sulla gestione dei dati militari.


Le insidie dell’ipotesi tecnologica e logistica

Dietro la retorica del muro ci sono problemi concreti. In primo luogo, il bilancio. Un sistema così sofisticato richiede finanziamenti massicci: droni cooperanti, sistemi radar avanzati, supporti elettronici, infrastrutture cloud sicure, manutenzione costante e aggiornamenti continui. E tutti gli Stati membri partono da livelli di spesa militare profondamente disomogenei. Alcuni possono sostenere l’investimento; altri, al contrario, sono costretti a scelte politiche a corto termine.

Poi c’è la governance: chi decide quando un drone è una minaccia? Chi autorizza la neutral

izzazione? Chi assume responsabilità su eventuali errori? La competenza nazionale, il coordinamento europeo e il rispetto degli obblighi Nato dovranno essere conciliati con regole precise. Se le regole saranno vaghe, il sistema rischia di restare paralizzato dal sovra-controllo politico.

La diffusione rapida delle tecnologie del drone – droni autonomi, sistemi di guerra elettronica, contromisure, armi ipersoniche – impone che l’architettura sia flessibile e aggiornata nel tempo. Un muro statico, immutabile, è destinato a essere superato. Occorrerà prevedere modularità, aggiornamenti trasversali e interoperabilità con satelliti, stazioni terrestri e sistemi di difesa antiaerea convenzionali.

Infine, l’integrazione con i sistemi tradizionali è cruciale: non ha senso concepire il muro come alternativa, ma come complemento a radar, intercettori, velivoli militari e sistemi missilistici. Il rischio è creare sovrapposizioni, duplicazioni o, peggio, lacune.


Verso un nuovo paradigma difensivo europeo

Il muro di droni non è soltanto un’operazione militare, ma una sfida geopolitica e morale: coniugare spirito comunitario, autonomia strategica e alleanza atlantica. Se l’Unione europea vuole emergere come attore geopolitico credibile, non può limitarsi a delegare: deve costruire, innovare e rischiare. Ma non può farlo da sola: la Nato rimane la cornice difensiva fondamentale del continente.

La posta in gioco è altissima. Come ha sintetizzato Ursula von der Leyen, «Il muro di droni non sarà solo una barriera tecnologica, ma un simbolo della capacità europea di agire insieme per la propria sicurezza. Dobbiamo dimostrare che la cooperazione è la nostra arma più potente».

E il Segretario generale Mark Rutte, nel suo recente intervento al Consiglio Atlantico, ha ribadito: «Non possiamo permetterci di costruire muri che dividono le nostre strategie. L’Europa e la Nato devono essere un solo scudo, un solo radar, un solo cielo».

Se il progetto saprà diventare una rete operativa affidabile, flessibile e condivisa, l’Europa potrà davvero ridefinire le regole del cielo difensivo e trasformare la vulnerabilità in forza. In caso contrario, resterà un esercizio di diplomazia tecnica, un’illusione di sicurezza costruita sopra una rete ancora troppo fragile.

Il tempo è stretto, le tensioni aumentano, e i cieli dell’Europa orientale non perdonano esitazioni. Il muro di droni è una partita aperta: la più ambiziosa scommessa di sicurezza comune dell’era moderna. E forse, più che un progetto militare, è il banco di prova della volontà politica europea di non restare più spettatrice della propria difesa.

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