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Venezuela chiude l’ambasciata di Oslo: la vendetta diplomatica di Maduro dopo il Nobel a María Corina Machado

Tre giorni dopo il Premio Nobel per la Pace all’esponente dell’opposizione, il regime venezuelano ha ordinato la chiusura della sede diplomatica in Norvegia. Ufficialmente una “ristrutturazione amministrativa”, in realtà un segnale politico contro chi osa premiare la libertà

Venezuela chiude l’ambasciata di Oslo: la vendetta diplomatica di Maduro dopo il Nobel a María Corina Machado

María Corina Machado

A volte la politica estera si racconta con gesti silenziosi. Una porta che si chiude, una targa che viene rimossa, un’insegna che scompare. È successo a Oslo, dove il 13 ottobre 2025 l’ambasciata del Venezuela ha cessato le sue attività.
Un fatto che, da solo, potrebbe sembrare una semplice nota burocratica. Ma basta guardare il calendario per capirne il peso: appena tre giorni dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, la voce più nota dell’opposizione venezuelana.
La coincidenza non è casuale: è un segnale politico, un messaggio lanciato con la diplomazia del silenzio.

La giustificazione ufficiale di Caracas parla di una “profonda riorganizzazione” delle rappresentanze all’estero. Dietro quella formula anodina, però, si intravede la volontà di rompere simbolicamente un legame con la Norvegia, Paese che — attraverso il Comitato Nobel — ha dato voce a una delle figure più scomode per il regime di Nicolás Maduro.
Oltre alla sede norvegese, il governo ha annunciato anche la chiusura dell’ambasciata in Australia, mentre prevede nuove aperture diplomatiche in Zimbabwe e Burkina Faso. Due scelte che non sono neutre: segnano il passaggio da un mondo a un altro, da un sistema di relazioni occidentali a un’alleanza ideologica con i Paesi del cosiddetto “Sud globale”.

Dietro questa mappa geopolitica c’è la volontà di ridefinire la postura internazionale del Venezuela, di sottrarsi all’isolamento imposto da sanzioni e accuse, e di ritrovare un’identità “anticoloniale”, costruita su un lessico che parla di resistenza, sovranità e multipolarismo.
In realtà, è la diplomazia dell’autodifesa. Maduro alza muri dove un tempo si costruivano ponti, chiude ambasciate mentre apre fronti di propaganda, sostituisce i dialoghi con le dichiarazioni di principio.

Maduro

La Norvegia, che per anni ha ospitato colloqui informali tra governo e opposizione venezuelana, ha accolto la notizia con “rammarico”. Un termine diplomatico che, nella lingua dei ministeri degli Esteri, vale quanto un pugno sul tavolo. Oslo ha chiarito che il Comitato Nobel è indipendente dal governo, ma il messaggio è stato comunque percepito come un affronto.
La chiusura dell’ambasciata venezuelana — oltre al valore politico — comporta anche la fine di una presenza diplomatica storica: quella norvegese era una delle prime sedi aperte in Europa dopo la rivoluzione bolivariana.

Il gesto arriva in un momento in cui María Corina Machado, 58 anni, è diventata la figura simbolo di un Paese diviso tra paura e speranza.
Ex deputata, ingegnere, fondatrice del movimento Vente Venezuela, Machado ha vissuto anni di esclusione, minacce e censura. È stata bandita dalle elezioni, perseguitata dai tribunali, eppure non ha mai smesso di parlare.
Il Nobel, assegnato con la motivazione di “aver incarnato la resistenza civile e il diritto alla democrazia in un contesto di autoritarismo”, ha riportato il Venezuela al centro del dibattito mondiale.
Un riconoscimento che il regime non poteva ignorare — ma che non poteva nemmeno attaccare apertamente senza svelare la propria fragilità.

Ecco allora la mossa: chiudere l’ambasciata.
Un modo per dire “non riconosciamo il vostro gesto” e, allo stesso tempo, “non possiamo impedirlo”. È la versione moderna della diplomazia del rancore: colpire il simbolo, non il dialogo.

Maduro, che da dodici anni governa tra crisi economica, sanzioni e proteste represse, ha reagito come da copione. Nelle sue recenti dichiarazioni ha definito Machado “una marionetta dell’imperialismo” e ha parlato di “tentativi stranieri di destabilizzare la patria bolivariana”.
Una retorica logora, ma utile per rinsaldare il consenso interno e distogliere l’attenzione da un Paese stremato da inflazione, emigrazione e povertà.

Sul piano internazionale, la chiusura dell’ambasciata norvegese si inserisce in una strategia di progressivo isolamento controllato. Caracas preferisce scegliere i propri interlocutori: non più i Paesi che criticano la repressione, ma quelli che condividono il suo linguaggio ideologico.
Il Venezuela di oggi parla con Pechino, Mosca, Teheran e Pretoria. Cerca legittimità nel gruppo dei Paesi che contestano l’egemonia occidentale. È una mossa di sopravvivenza, ma anche una dichiarazione d’identità: “noi siamo gli esclusi che non vogliono più rientrare nel club”.

Intanto, in Norvegia, la reazione del mondo politico e culturale è stata improntata al dispiacere. Nessuno, però, sembra intenzionato a chiudere la porta in modo definitivo.
La ministra degli Esteri ha auspicato che “il dialogo possa continuare in altre forme”.
Una frase che suona come l’eco di un tempo in cui la diplomazia serviva a costruire ponti, non a contare nemici.

Eppure, proprio in questo silenzio di corridoi vuoti e bandiere ammainate, si percepisce la distanza tra due visioni del mondo: da un lato quella del potere che teme la verità, dall’altro quella di una donna che ha trasformato il coraggio in testimonianza.
Il Nobel a María Corina Machado non è solo un premio, ma un faro acceso in mezzo alla notte della democrazia venezuelana.
La chiusura dell’ambasciata di Oslo, al contrario, è un interruttore abbassato.
Due gesti opposti, due linguaggi diversi. Ma in entrambi i casi, il mondo ha capito da che parte sta la luce.

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