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14 Ottobre 2025 - 18:26
Sarah Disabato e Giorgia Meloni
Il settore della canapa è di nuovo nell’occhio del ciclone. Negli ultimi giorni in tutta Italia — dal Piemonte alla Puglia — si moltiplicano i sequestri e perfino le distruzioni di intere coltivazioni, spesso senza alcun accertamento tecnico preliminare. A denunciare la situazione è Sarah Disabato, capogruppo regionale del Movimento 5 Stelle Piemonte, che punta il dito contro il nuovo Decreto Sicurezza voluto dal Governo Meloni: “Sta danneggiando irrimediabilmente un intero comparto produttivo, e a pagare il prezzo delle scelte della destra sono ancora una volta le imprese che hanno creduto in questa filiera e che oggi vengono trattate come criminali”.
Il caso più eclatante è arrivato dalla Puglia, dove un coltivatore è stato arrestato per traffico di stupefacenti solo perché produceva canapa industriale. Il Giudice per le Indagini Preliminari ha poi ordinato la scarcerazione immediata, spiegando che “in assenza di accertamenti scientifici validi non possono esistere gravi indizi di colpevolezza”. Ma il danno era già fatto: campo distrutto, raccolto perso, reputazione compromessa. È l’esempio perfetto di un meccanismo che, secondo i produttori, sta paralizzando un settore che fino a pochi anni fa veniva indicato come simbolo di sostenibilità e rinascita rurale.
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Dietro queste storie c’è un nodo giuridico tutt’altro che marginale. L’articolo 18 del Decreto Sicurezza ha infatti introdotto norme che aumentano la discrezionalità degli interventi delle forze dell’ordine in materia di coltivazioni di canapa, prima ancora che siano svolte le analisi di laboratorio sul contenuto di THC (la sostanza psicoattiva della pianta). In pratica, ciò che era una coltura agricola legale, certificata e regolata dalla legge 242 del 2016, può oggi essere trattata come un potenziale reato.
Per capire il paradosso bisogna ricordare che la canapa industriale non ha nulla a che fare con la “marijuana da sballo”. È la stessa pianta, sì, ma di varietà registrate e certificate dall’Unione Europea, con livelli di THC bassissimi, talmente bassi da non avere alcun effetto psicoattivo. Le varietà autorizzate vengono inserite in elenchi ufficiali, e ogni coltivatore deve conservare le etichette dei semi, i contratti d’acquisto e le analisi di laboratorio per dimostrare la conformità. Eppure, nonostante la trasparenza e le regole chiare, in Italia basta un sospetto, una segnalazione o una semplice interpretazione restrittiva per far scattare i sigilli e le ruspe.
“È una follia”, spiega Disabato, “perché si distruggono anni di investimenti, di lavoro, di innovazione sostenibile. Il Governo aveva promesso tutele per il settore, ma oggi centinaia di aziende e migliaia di lavoratori si trovano in ginocchio a causa di un provvedimento ideologico”.
E i numeri parlano chiaro. In Italia la filiera della canapa industriale conta oltre 1.500 aziende agricole, un migliaio di addetti diretti e centinaia di imprese artigiane e commerciali collegate: dai produttori di tessuti ecologici ai costruttori di materiali da bioedilizia, dai laboratori di cosmetici naturali alle aziende alimentari che utilizzano semi e oli di canapa per produrre farine, biscotti, birre e pasta. Un microcosmo economico che vale decine di milioni di euro e che rappresenta una delle frontiere più promettenti della transizione ecologica.
Per questo, dicono i produttori, è insopportabile vedersi additare come criminali. Il settore ha investito in formazione, ricerca e innovazione, con università, cooperative e startup che in molte regioni hanno sperimentato nuovi modelli di economia verde. In Piemonte, per esempio, diverse aziende hanno trasformato capannoni abbandonati in centri di lavorazione della fibra e in laboratori per la produzione di materiali biocompositi, unendo innovazione tecnologica e radici agricole. Tutto questo, oggi, rischia di essere spazzato via da una norma scritta — dicono — più per ragioni politiche che per reale necessità di ordine pubblico.
La capogruppo pentastellata accusa il centrodestra di fare propaganda invece di contrastare davvero lo spaccio: “Se volessero davvero fermare le droghe, concentrerebbero le forze dell’ordine nelle periferie e nei quartieri dove lo spaccio esiste davvero, non nei campi dove si coltivano piante legali e tracciabili”.
E dal Piemonte, aggiunge, regna il silenzio: “La Giunta Cirio non muove un dito per difendere un comparto che crea valore, lavoro e rispetto per l’ambiente. Si lascia morire un settore che rappresenta il futuro verde del Paese”.
Le critiche al Governo non vengono solo dal M5S. Anche associazioni di categoria e consorzi agricoli parlano di un clima di incertezza che scoraggia nuovi investimenti. Gli agricoltori spiegano che non esiste più una linea chiara tra chi coltiva legalmente e chi viola la legge: le procure si riempiono di fascicoli destinati a chiudersi nel nulla, con spreco di risorse e danni d’immagine per chi produce nel rispetto delle norme.
Sul piano politico, la vicenda della canapa diventa così una cartina di tornasole del modo in cui il Governo interpreta il concetto di sicurezza. Da un lato, si colpiscono realtà produttive trasparenti, dall’altro si continua a parlare genericamente di “lotta alla droga” senza distinguere tra filiere legali e criminalità vera. Un approccio che, come sottolinea Disabato, “non tutela nessuno e fa solo male all’economia, alla ricerca e alla credibilità delle istituzioni”.
Secondo gli operatori, il vero rischio è uccidere un’economia nascente fatta di agricoltura pulita, filiere corte e innovazione: dalla bioedilizia ai tessuti naturali, dagli oli alimentari alle bioplastiche. È un mondo che potrebbe dare respiro a molte aree rurali, ma che oggi si trova di fronte a un muro di diffidenza e burocrazia.
Il Movimento 5 Stelle chiede alla Regione Piemonte di intervenire subito, difendendo gli operatori colpiti da sequestri giudicati “illegittimi”, e invita il Governo a fermarsi: “Serve una politica seria, basata su dati scientifici, non su slogan. Il futuro verde dell’Italia non può essere bruciato per pregiudizio”.
E in effetti la storia della canapa in Italia è una lunga parabola di promesse e contraddizioni. Fino agli anni Cinquanta, l’Italia era il secondo produttore mondiale dopo l’URSS. Le colline e le pianure del Piemonte, dell’Emilia e della Campania erano disseminate di campi di canapa. Poi l’arrivo delle fibre sintetiche e la criminalizzazione della pianta cancellarono tutto. La legge del 2016 sembrava aver aperto un nuovo capitolo, ma ora il cerchio rischia di chiudersi di nuovo.
Oggi, dopo anni di sperimentazioni, il settore chiede solo chiarezza, regole certe e rispetto. Perché, come ricorda Sarah Disabato, “non si può parlare di transizione ecologica e di economia verde se poi si distruggono le colture che incarnano questi principi. La vera sicurezza è quella che protegge il lavoro e l’ambiente, non quella che alimenta la paura”.
Per secoli il Piemonte è stato terra di canapa. Campi verdi a perdita d’occhio, filande, corde, tessuti e un sapere contadino che intrecciava economia e territorio. Poi il proibizionismo, l’abbandono, la plastica. Oggi, dopo anni di rinascita, quella storia rischia di chiudersi di nuovo: la canapa piemontese è tornata sotto accusa.
A finire nel mirino sono centinaia di aziende agricole, piccole imprese e cooperative che negli ultimi dieci anni avevano creduto in una filiera capace di coniugare innovazione, ambiente e lavoro. Ora tutto rischia di svanire, travolto da un quadro normativo confuso e da una burocrazia che — denunciano i produttori — tratta chi coltiva piante legali come se fosse uno spacciatore.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicati i sequestri di campi e i blocchi di produzione, spesso senza nemmeno un’analisi di laboratorio. L’applicazione dell’articolo 18 del Decreto Sicurezza, che vieta le attività legate alle infiorescenze e ai derivati della canapa, ha gettato nel caos un comparto che fino a poco tempo fa rappresentava una delle esperienze più promettenti della green economy italiana.
Per la cronaca, in Piemonte, si contano circa 200 aziende e oltre 70 ettari coltivati, con un indotto che, tra alimentazione, bioedilizia, cosmetica e tessile, vale almeno 25 milioni di euro e impiega più di mille persone. Un piccolo universo di agricoltori, artigiani e ricercatori che vedono nella canapa una scommessa di futuro.
La rinascita è iniziata nel 2016, con la legge nazionale n. 242 che ha riportato la canapa tra le colture agricole riconosciute e incentivate. Da lì sono nati progetti di ricerca e sperimentazione come “Canapa per il Piemonte”, che punta a selezionare varietà dioiche ad alta resa e creare impianti per la lavorazione del seme, dalla raccolta al confezionamento. Nel 2021 la Regione ha persino approvato una legge ad hoc, stanziando 250 mila euro in tre anni per sostenere la filiera e favorire le trasformazioni.
E poi c'è il Canavese. Qui a canapa non è solo una coltura, ma una parte dell’identità locale. Lo dice persino l’etimologia: “canava”, antica parola per indicare i campi di canapa, da cui secondo alcuni deriva il nome della zona. Le fibre canavesane, fino agli anni Cinquanta, servivano per corde, sacchi e vele. Con l’avvento delle fibre sintetiche e il proibizionismo, tutto sparì. Poi, quasi settant’anni dopo, una rinascita lenta ma tenace.
Nel 2016 nasce Canavese Canapa, associazione che riunisce coltivatori, artigiani e tecnici con un obiettivo chiaro: rigenerare i terreni e l’economia locale. Tra i volti simbolo della nuova generazione ci sono Virginia Avallone e Luca Bertetti, due giovani produttori convinti che la canapa sia “una risorsa, non una minaccia: rigenera il suolo, assorbe metalli pesanti, richiede poca acqua e nessun pesticida. È una pianta che cura la terra e crea lavoro”.
Dalle loro esperienze è nata una rete di imprese e laboratori che oggi dà vita a una filiera completa. A Borgomasino, per esempio, l’azienda Green Italy ha realizzato un sistema integrato di produzione: spremitura a freddo dei semi, mulino a pietra, decorticatore e laboratori per trasformare la canapa in olio, farine, pasta, biscotti e cosmetici naturali. Una piccola eccellenza di economia circolare che dimostra come sostenibilità e territorio possano convivere.
Tutto questo, però, ora vacilla. Il Decreto Sicurezza ha riscritto le regole e il risultato è la paralisi: sequestri preventivi, controlli discrezionali, paura. Il Consiglio regionale del Piemonte ha già riconosciuto che il settore è in crisi. Durante un’audizione pubblica, associazioni come Assocanapa, Imprenditori Canapa Italia e Federcanapa hanno denunciato la situazione: “Non sappiamo più cosa sia consentito e cosa no. Ogni giorno ci troviamo davanti a interpretazioni diverse e al rischio di perdere tutto per colpa di norme scritte male”.
Eppure, proprio il Piemonte avrebbe potuto essere la regione guida della nuova agricoltura sostenibile. Qui la canapa non serve a “fumare”, ma a costruire case, bonificare terreni inquinati, creare fibre biodegradabili e produrre alimenti ricchi di omega 3 e proteine vegetali. È la materia prima perfetta per la bioeconomia del futuro. Ma senza regole chiare, laboratori certificati e tutele per chi investe, anche il sogno più verde può appassire.
Gli agricoltori del Canavese non chiedono miracoli, ma rispetto. Vogliono essere trattati come agricoltori, non come criminali. Chiedono che i controlli vengano effettuati in base a prove scientifiche, non a sospetti, e che la Regione si faccia garante di chi lavora nella legalità.
Oggi, mentre il Governo parla di “sicurezza” e difende un decreto che colpisce più chi semina che chi spaccia, la canapa piemontese rischia di finire di nuovo al margine. E con essa, tutto ciò che rappresenta: un’economia pulita, un lavoro onesto e una speranza verde per le campagne del Nord.
Come ha detto un produttore del Canavese davanti al Consiglio regionale: “Ci dicono che la canapa è pericolosa. Ma pericoloso è un Paese che brucia il proprio futuro per paura di una pianta”.
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