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11 Ottobre 2025 - 01:15
Manuel Macron
Non c’è il due senza il tre, e il tre è di nuovo lui: Sébastien Lecornu. In Francia la politica è diventata un gioco da tavolo, di quelli in cui si finisce sempre per tornare al punto di partenza, lanciando i dadi con un misto di rassegnazione e ironia. Emmanuel Macron, che ormai sembra più un prestigiatore che un presidente, ha deciso che, dopo averlo mandato a casa il 6 ottobre, valeva la pena di riprovarci. E così, il 10 ottobre, eccolo lì, il suo fedelissimo Lecornu, richiamato all’Eliseo come un supplente chiamato per la terza volta nella stessa settimana.
Un ritorno in grande stile? Non proprio. Più che un governo, quello di Lecornu assomiglia a un esperimento di sopravvivenza politica. Non c’è maggioranza, non c’è entusiasmo, non c’è neppure quella parvenza di stabilità che in altri tempi serviva almeno per illudere i mercati. Ma c’è lui, Macron, l’uomo che non molla, che rimescola le carte, che prova a rifare il mazzo dopo ogni mano persa. Il problema è che ormai i giocatori al tavolo cominciano a guardarlo con sospetto, come quando uno bara troppo spesso ma continua a sorridere come se niente fosse.
Il ritorno di Lecornu è un capolavoro di déjà vu istituzionale: primo mandato lampo, governo evaporato in una settimana, dimissioni da record e, pochi giorni dopo, rieccolo di nuovo in carica, come se niente fosse. In Francia lo chiamano “le deuxième souffle”, il secondo fiato, ma qui siamo almeno al terzo. Non c’è il due senza il tre, appunto. Un detto che suona come una maledizione più che come un proverbio, in una Repubblica dove il numero dei governi sembra ormai seguire la frequenza delle tempeste parlamentari.
E Macron, che doveva essere il presidente del rinnovamento, si ritrova a fare il restauratore di se stesso. Dopo otto anni di mandato, l’uomo dell’Europa, della modernità e delle riforme sembra ormai confinato in un teatrino politico in cui i copioni si ripetono e gli attori cambiano solo posizione. C’è chi lo descrive come “solo sulla riva della Senna”, chi parla di “isolamento politico crescente”, chi si limita a notare che è riuscito nell’impresa di riunire tutti contro di lui, dalle sinistre ai gollisti. Ma lui va avanti, impassibile, come se nulla potesse scalfirlo. La France, c’est moi, verrebbe da dire, parafrasando il Re Sole.
La nomina del 10 ottobre, raccontano a Parigi, è stata una mossa disperata ma calcolata. Macron non aveva alternative, o meglio, non aveva più nessuno disposto a farsi bruciare al posto suo. E allora via di nuovo Lecornu, 38 anni, ex ministro della Difesa, uomo di fiducia, obbediente ma con quel tocco di testardaggine che piace al capo. Il suo compito è chiaro: reggere il governo fino alla legge di bilancio, evitare lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e sperare che nel frattempo l’opposizione si divida da sola. Una missione impossibile, ma ormai la politica francese vive di miracoli a termine.
La verità è che la Quinta Repubblica sta mostrando tutte le sue crepe. Macron l’ha interpretata come un monologo personale, ma oggi assomiglia più a un dialogo stanco tra lui e la sua ombra. Le opposizioni gridano alle urne, la piazza rumoreggia, i sindacati si scaldano e l’opinione pubblica si chiede se ci sia ancora un progetto o solo una gestione del caos. Encore Lecornu? titolavano i giornali francesi, con quella sottile ironia che accompagna i momenti più grotteschi della politica d’Oltralpe.
Il nuovo governo, o meglio la copia carbone del precedente, nasce debole e precario. Ma nella narrazione macroniana, tutto è parte di un piano: la responsabilità, la continuità, la serietà. Peccato che in Assemblea nazionale nessuno sembri crederci più. Nemmeno tra i centristi, che fino a ieri difendevano l’inquilino dell’Eliseo come si difende una diga ormai piena di crepe. Le Pen sogghigna, Mélenchon arringa, i Républicains alzano le spalle. Il copione è già scritto: sarà un autunno di veleni, manovre e mozioni di sfiducia.
Sébastian Lecornu
E intanto Lecornu prova a ricominciare da capo, come uno studente che ripete l’anno scolastico. Con la differenza che questa volta i professori — pardon, i deputati — sembrano intenzionati a bocciarlo prima ancora che inizi l’esame. Ma lui sorride, abituato ormai a fare da parafulmine, e promette di “ascoltare, unire e agire”. Sembra la stessa frase del discorso precedente, e forse lo è davvero. In Francia le parole sono come il vino: si riciclano, si decantano, ma raramente inebriano.
Macron, invece, osserva. Dicono che non dorma molto, che passi ore a scrivere appunti e a cercare di capire come evitare di diventare un’anatra zoppa in anticipo. Forse spera che l’Europa lo guardi ancora come un leader, ma ormai anche a Bruxelles lo considerano più un problema che una risorsa. L’Eliseo non è più una reggia ma un fortino, e il suo comandante sembra sempre più solo, accerchiato da un Parlamento ostile e da un Paese che ha smesso di credere alla retorica del “nuovo mondo”.
Non c’è il due senza il tre, e il tre è di nuovo Lecornu. Chissà se arriverà mai il quattro. In fondo, in Francia, tutto può succedere: governi che durano una settimana, ministri che tornano come boomerang e presidenti che si reinventano come direttori d’orchestra di un’orchestra che non ha più voglia di suonare. L’unica nota certa è che lo spettacolo continua. Sempre con lo stesso attore protagonista, sempre con la stessa replica. E il pubblico, stanco ma curioso, resta seduto in platea. Perché, si sa, la politica francese è come una commedia di Molière: assurda, ripetitiva, ma irresistibilmente umana.
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