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Il giovane Emilio Fede e la strage di Rivarolo del 1958: 4 vigili del fuoco morti al "passaggio a livello"

Aveva ventisei anni e scriveva per la Gazzetta del Popolo: fu inviato a raccontare lo scontro al passaggio a livello tra Rivarolo e Favria, dove morirono quattro vigili del fuoco volontari. Un battesimo di sangue che segnò per sempre la sua carriera di cronista

Il giovane Emilio Fede e la strage di Rivarolo del 1958

Emilio Fede. Sullo sfondo la foto dell'incidente

È il 2 gennaio del 1958 quando un giovane cronista, praticante della Gazzetta del Popolo, viene mandato di corsa in Canavese. Si chiama Emilio Fede e ha appena 26 anni. Non è ancora il volto televisivo che negli anni successivi dividerà l’Italia, ma un ragazzo che impara a raccontare il mondo con un taccuino sgualcito, una biro che macchia le dita e una voglia irrefrenabile di dimostrare di saper fare il giornalista. Quella mattina la redazione gli affida un compito duro, che nessun praticante desidererebbe: raggiungere in fretta Rivarolo Canavese, perché al passaggio a livello di via Favria è successo l’impensabile.

Il destino crudele si abbatte su otto uomini. Sono volontari, padri di famiglia, lavoratori che di giorno fanno l’operaio, l’artigiano, il negoziante e di sera corrono a sirene spiegate quando qualcuno ha bisogno. Loro non si voltano mai dall’altra parte. Quella sera, alle 20.35, l’autopompa nuova fiammante del distaccamento, un OM Leoncino 25/100 consegnato da poche settimane, parte per un incendio a Rocca Canavese, in località Case Gabaccia. A bordo ci sono otto uomini: il capo-squadra Giacomo Gindro, che oltre alla divisa porta sulle spalle il ruolo di vicesindaco della città, Domenico Porello al volante, Antonio Merlo, Renè Sacchi, Ezio Porello, Domenico Milano, Domenico Vecchia e Secondo Furno.

Arrivati in via Favria, trovano le sbarre alzate. La strada sembra libera, la corsa può continuare. Ma proprio in quell’istante, da Pont Canavese, sopraggiunge la motrice A38 della Canavesana, diretta a Torino con una trentina di passeggeri a bordo. L’impatto è devastante. Il boato è enorme. Il Leoncino viene trascinato, accartocciato, squarciato in due. Per Gindro, Merlo, Porello e Sacchi non c’è scampo: muoiono sul colpo, con ancora addosso l’odore della vernice fresca della nuova autopompa. Gli altri quattro rimangono feriti. I passeggeri del treno, incredibilmente, ne escono tutti quasi illesi.

Le cronache raccontano che il casellante, sconvolto, fugge in bicicletta. Una fuga che dura due giorni, fino alla resa spontanea alla Procura di Torino, che lo accusa di omicidio colposo plurimo, lesioni gravi e omissione di soccorso. Le pagine della Gazzetta del Popolo del 3 gennaio 1958 lo scrivono con parole crude: “Si udì uno schianto pauroso, la rossa macchina venne afferrata, stritolata, divisa in due”. È una frase che, a distanza di oltre sessant’anni, qualcuno ancora sussurra in via Favria, dove oggi un cippo ricorda i caduti.

Emilio Fede, mandato lì come inviato di provincia, si trova davanti a una scena che segna per sempre la sua idea di giornalismo. Non c’è tempo per farsi prendere dalla commozione: bisogna raccogliere dettagli, testimonianze, trascrivere i nomi delle vittime, dare voce al dolore dei sopravvissuti. Fede ascolta le lacrime delle vedove, gli sguardi persi dei colleghi vigili, il brusio soffocato di una folla che non riesce a credere a ciò che ha visto. Per un ragazzo che impara il mestiere, è un battesimo del fuoco. Scrive righe veloci, forse imperfette, ma autentiche, dettate dal peso della responsabilità.

Nei giorni seguenti la stampa nazionale si riempie di titoli: il 4 e 5 gennaio la Gazzetta racconta i funerali, le prime indagini, il clima di rabbia e dolore. La stessa Gazzetta del Popolo, sulle cui colonne Fede pubblica, dedica spazio a quelle vite spezzate. Il ministro dei Trasporti Armando Angelini interviene da Roma: “Il problema dei passaggi a livello deve essere risolto al più presto”. È l’ammissione che quell’incidente non è solo fatalità, ma il risultato di un sistema pericoloso, di cancelli che troppo spesso restano aperti.

l'incidente

l'incidente

Il 6 gennaio 1958, giorno dell’Epifania, Rivarolo vive una seconda tragedia: i funerali solenni delle quattro vittime. La parrocchia di San Giacomo non riesce a contenere la folla. Autorità civili, militari, cittadini comuni, tutti insieme, in un fiume di gente che stringe fiori, fazzoletti e bandiere listate a lutto. Una città intera si ferma. Pochi giorni dopo, il 13 gennaio, al distaccamento arriva una nuova autopompa OM Leoncino: un modo per dire che il servizio non si ferma, nemmeno nel dolore.

In quell’Italia che corre verso il boom economico, Rivarolo si scopre improvvisamente fragile. E Emilio Fede impara che la cronaca non è mai solo “nera”: è fatta di volti, mani, silenzi, dettagli che restano incisi. Quell’esperienza lo tempra. Nei decenni successivi sarà conduttore del TG1, direttore del telegiornale Rai, poi a lungo al timone del TG4, fino a diventare un personaggio discusso, amato e odiato. Ma il primo vero banco di prova, la prima immersione nel dolore collettivo, avviene lì, su un binario del Canavese, davanti a quattro bare e a una città paralizzata.

Ecco perché oggi, ricordando la sua scomparsa, non si può che tornare con la memoria a quella sera d’inverno. Non è ancora il direttore che divide l’Italia, ma un ragazzo che impara a raccontare la realtà. E quella realtà ha il volto di Giacomo Gindro, Antonio Merlo, Domenico Porello e Renè Sacchi. Ha il suono di una sirena spezzata, il silenzio di una comunità attonita, le mani giunte delle vedove. Ogni anno, il 2 gennaio, la sirena della caserma di Rivarolo torna a suonare, la città si raduna davanti al cippo di via Favria, e i superstiti raccontano, quando la voce regge. È la memoria che non scade, quella che anno dopo anno ripete gli stessi nomi e rinnova la stessa promessa: non dimenticare.

E forse, anche se la sua carriera lo porterà altrove, Emilio Fede non dimenticherà mai quel giorno. Perché lungo i binari della Canavesana, la cronaca gli insegna la sua legge più dura: i fatti prima di tutto. Fatto è che le sbarre sono alzate. Fatto è che muoiono quattro uomini. Fatto è che una città intera impara che il giornalismo, quando è vero, è anche il racconto del dolore.

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