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Cronaca
29 Agosto 2025 - 23:25
Procure in trincea contro i siti sessisti: indagini da Roma a Genova fino a Sofia
La caccia ai siti sessisti non è più lasciata soltanto alle denunce sporadiche delle vittime o agli allarmi delle associazioni: ora è nelle mani delle Procure. La magistratura ha aperto un fronte che potrebbe rivelarsi decisivo contro chi, per strappare qualche clic in più e alimentare un mercato tanto sporco quanto redditizio, pubblica e condivide immagini rubate di donne, celebri e comuni, esponendole a commenti osceni, volgari e in certi casi persino minacciosi.
La Procura di Roma è la prima a muoversi con decisione ed è in attesa di una corposa informativa dalla Polizia Postale, che ha già avviato accertamenti per risalire non solo agli amministratori delle piattaforme incriminate, ma anche agli utenti che postavano le foto e a chi, nascosto dietro un nickname, riversava insulti, minacce e fantasie sessiste. Una volta sul tavolo dei magistrati, quelle carte consentiranno l’apertura di un fascicolo formale. Ma le denunce e gli esposti arrivano da tutta Italia, e il fenomeno appare ormai così diffuso che diverse altre Procure hanno già manifestato la volontà di affiancarsi a Roma per avviare un’azione coordinata.

Le indagini non si limiteranno ai singoli utenti: nel mirino ci sono anche i server e i provider che ospitano questi contenuti. Le fonti investigative parlano apertamente di una “stretta” imminente, con possibili limitazioni o sospensioni nei confronti dei fornitori di servizi digitali che permettono a queste realtà di prosperare. L’obiettivo è chiaro: colpire la filiera che rende possibile il furto e la diffusione di immagini intime e personali, impedendo che il web diventi una discarica a cielo aperto per la dignità delle donne. Un monitoraggio sui server e sui provider, spiegano gli inquirenti, è già costante, ma le nuove direttive puntano a intensificarlo.
A Genova il caso è già esploso con forza. Diverse donne hanno segnalato di essersi riconosciute in alcune foto circolate sul gruppo Facebook “Mia Moglie”, la comunità virtuale dalla quale è partito lo scandalo. Una nota attivista ligure, solo pochi giorni fa, ha scoperto che tra gli iscritti comparivano decine di concittadini insospettabili: poliziotti, militari, medici, dirigenti sanitari, avvocati, insegnanti e persino docenti universitari. Tutti uniti, senza alcun pudore, nello scambio di immagini delle proprie mogli o compagne, condivise senza consenso, con l’unico scopo di esibirle allo sguardo di estranei. Qualcuno si era nascosto dietro l’anonimato, ma molti altri no. E con il montare del clamore mediatico, diversi iscritti hanno fatto marcia indietro, cancellando il proprio profilo o tentando di far sparire le tracce della loro adesione. In alcuni casi, secondo segnalazioni ancora da verificare, sarebbero state avanzate persino richieste di denaro in cambio della rimozione delle immagini: se confermato, un nuovo filone d’indagine si aprirebbe all’orizzonte.
Da Milano arriva invece un’iniziativa di taglio legale: l’avvocata familiarista Annamaria Bernardini de Pace ha lanciato una class action contro Facebook, nel tentativo di chiamare in causa direttamente la piattaforma che ha ospitato contenuti tanto degradanti. Meta, al momento, non ha risposto. Sul piano giuridico la questione è tutt’altro che semplice. Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali, interpellato dall’ANSA, sottolinea che la prima tutela minima dovrebbe essere l’eliminazione immediata dei contenuti lesivi, così da interrompere almeno gli effetti più devastanti delle condotte illecite. Ma il problema, aggiunge, è di natura più ampia: “L’irruzione delle tecnologie digitali, accompagnata dall’uso massiccio e sempre più facile dell’intelligenza artificiale, ha creato un terreno minato. La conoscenza degli strumenti non basta: da sola rivela l’inadeguatezza delle difese attuali. Non servono slogan come ‘inaspriamo le pene’, ma cultura, educazione e un ripensamento profondo dei meccanismi di controllo di questi strumenti, che restano oggi una terra di nessuno”.
E infatti non ci sono solo gli utenti e i gruppi su Facebook. L’altra faccia delle indagini riguarda i siti veri e propri. Uno dei nomi più discussi è quello di Phica.eu, un forum che raccoglieva immagini di donne comuni e di personaggi noti – persino della premier Giorgia Meloni – poi bersagliate dai commenti più degradanti. Prima di cancellarsi dal web, il gestore del sito aveva lasciato una risposta online, quasi a voler giustificare il suo operato. Alcuni analisti di intelligence, in un’inchiesta riportata da Repubblica, hanno individuato un legame diretto tra il forum e la società Hydra Group Eood, con sede legale a Sofia, in Bulgaria.
Secondo le verifiche, Hydra – presentata nei registri ufficiali come una semplice società di consulenza – avrebbe in realtà gestito un giro d’affari milionario, a fronte di un capitale sociale ridicolo, appena 50 euro. Il titolare, un cittadino italiano, avrebbe costruito una rete di scatole cinesi che toccava Francia, Spagna e Regno Unito, fino a far confluire tutto in un edificio di Sofia dove risultano domiciliate almeno quattro società, tutte riconducibili alla stessa persona. Un sistema pensato per sfuggire ai controlli e schermare le responsabilità, che però gli inquirenti sono riusciti a ricostruire con pazienza.
Il quadro che emerge è quello di un ecosistema vasto e ramificato, in cui il sessismo diventa business e in cui la dignità delle donne viene sacrificata sull’altare del profitto e dell’intrattenimento malato. Una realtà che oggi non appare più invisibile, ma che resta difficile da estirpare. Le Procure, la Polizia Postale e gli avvocati hanno davanti una sfida enorme: smantellare queste reti senza cadere nell’illusione che basti una legge più dura. Serviranno strumenti più efficaci, ma anche consapevolezza collettiva, educazione digitale e il coraggio di guardare in faccia il degrado nascosto dietro lo schermo.
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