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28 Agosto 2025 - 17:19
#digiunogaza Pneumologia Ospedale di Ivrea
Oggi, in oltre 500 ospedali italiani, da Nord a Sud, da Bolzano alla Sicilia, sono stati 15.000 gli operatori sanitari che hanno aderito al “Digiuno per Gaza”. Una mobilitazione silenziosa eppure fragorosa, che ha attraversato l’intero Paese e che non ha risparmiato il Canavese, dove medici e infermieri degli ospedali di Ivrea, Chivasso e Castellamonte hanno scelto di unirsi a questa protesta. All’ospedale di Ivrea, nel reparto di Pneumologia guidato dalla dottoressa Fiorella Pacetti, il gesto ha assunto un valore ancora più forte: quando chi lavora per salvare vite rinuncia al cibo, quel digiuno non è solo simbolico, diventa una dichiarazione di guerra alla guerra.
L’atto compiuto oggi non è nato per caso. Non è una manifestazione episodica, ma la risposta a un dato che si fa ogni giorno più insopportabile: la sanità è ormai uno dei bersagli principali del conflitto in Medio Oriente. Non bastano le macerie dei palazzi, non basta il sangue dei civili, ora si colpiscono direttamente ambulanze, ospedali, medici, infermieri. Una strategia cinica che ha l’obiettivo di cancellare non solo le vite, ma anche la possibilità stessa di curarle.
I numeri diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ripresi dal Global Movement to Gaza, sono da brividi: dall’inizio dei bombardamenti sono stati uccisi 1.400 operatori sanitari, colpite 125 strutture mediche, distrutte 186 ambulanze e ridotti in macerie 34 ospedali. Solo pochi giorni fa, a essere annientato è stato l’ospedale Nasser, che fino a quel momento accoglieva centinaia di malati e feriti.
Questi dati raccontano una verità insopportabile: colpire chi salva vite è diventato parte della guerra. Non si tratta più di errori, di cosiddetti “danni collaterali”: è una scelta deliberata, una tattica spietata che trasforma i simboli universali di cura e soccorso in obiettivi militari. In questo abisso, i camici bianchi italiani hanno deciso di dire basta. Lo hanno fatto digiunando, cioè con il gesto più semplice e radicale che si possa immaginare: privarsi del cibo, per far sentire più forte la fame di giustizia.
Il digiuno non è stato l’unico segnale. Alla mobilitazione si affianca anche il boicottaggio dei farmaci prodotti dalla multinazionale israeliana Teva, accusata – spiegano le reti solidali – di “trarre profitto dall’occupazione dei territori palestinesi”. Una scelta scomoda ma necessaria, che ricorda le campagne internazionali contro l’apartheid sudafricano: allora si boicottava lo sport, la cultura, i prodotti commerciali; oggi si sceglie di colpire l’industria farmaceutica che trae guadagni da una situazione di occupazione.
Ospedale di Castellamonte
Ospedale Molinette Torino
Ospedale Chivasso. Sotto: ospedale Cuorgnè
Nelle corsie degli ospedali italiani, da Ivrea a Chivasso, da Castellamonte a Milano, si respira un’aria diversa. Non è solo indignazione, ma una straordinaria lezione di civiltà. Perché chi cura sa bene cosa significa la parola “vita”. Sa che ogni minuto può fare la differenza tra salvarla o perderla. E proprio per questo il silenzio non è più un’opzione. Chi ha deciso di digiunare oggi ha voluto dire che la neutralità non basta più: davanti alla barbarie bisogna scegliere da che parte stare.
Non è la prima volta che il mondo della sanità internazionale alza la voce. Già negli scorsi mesi, organizzazioni come Medici Senza Frontiere hanno denunciato con forza il bombardamento delle proprie cliniche a Gaza, definendo la situazione “catastrofica e disumana”. Anche la Croce Rossa Internazionale ha più volte richiamato al rispetto delle Convenzioni di Ginevra, ricordando che ambulanze e ospedali non possono essere in nessun caso bersagli di guerra. Parole che purtroppo si ripetono a ogni conflitto, dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanistan allo Yemen, e che oggi rimbombano ancora una volta, impotenti di fronte a una realtà che sembra non voler cambiare.
Eppure, qualcosa di diverso c’è. Il “Digiuno per Gaza” dimostra che la comunità sanitaria italiana non si limita a denunciare, ma sceglie di agire con i propri corpi. Un’azione che richiama altre pagine di mobilitazione civile: i digiuni collettivi contro le guerre in Iraq e in Kosovo, le marce per la pace che negli anni Ottanta riempivano Perugia-Assisi, le proteste dei medici cileni durante la dittatura di Pinochet. Storie lontane, eppure vicine, perché tutte raccontano la stessa verità: chi cura non può accettare la logica della distruzione.
A tutti quei medici, infermieri, tecnici e volontari che oggi hanno scelto di astenersi dal cibo va un grazie enorme. Non solo per il loro impegno quotidiano nelle corsie, ma per aver dimostrato che anche nella tragedia c’è spazio per un gesto di umanità. Perché la loro scelta non è solo simbolica: è la prova che la coscienza collettiva non è morta, che la sanità non è soltanto un mestiere ma un atto politico e morale.
Il “Digiuno per Gaza” non fermerà da solo le bombe, non restituirà ai vivi i bambini schiacciati sotto le macerie, non riaprirà gli ospedali distrutti, ma può scuotere le coscienze, dentro e fuori i confini italiani. Un grido muto ma assordante: la vita vale più della guerra.
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