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Lo Stiletto di Cl
27 Agosto 2025 - 15:43
La lapide che ricorda Pavese nella casa dove lo scrittore nacque, a Santo Stefano Belbo
Sono trascorsi esattamente settantacinque anni da quel 26 agosto 1950, un sabato, quando Cesare Pavese morì suicida, quarantaduenne, schiacciato dal peso dell’esistenza. Lo scrittore delle Langhe e della loro dimensione mitica mise fine alla propria vita in una camera dell’Albergo Roma, nella piazza Carlo Felice, a Torino.
Da sempre, la tragedia esistenziale di Pavese, uno degli autori più letti non soltanto in Italia, suscita l’interesse dei critici. Decadente incline alla solitudine, timido e introverso, personaggio scomodo dal punto di vista politico, letterato incapace di sgrovigliare il nodo arte-vita: di Pavese si sprecano le definizioni, talvolta superficiali e stereotipate. «Non sono un uomo da biografia. L’unica cosa che lascerò sono pochi libri nei quali c’è detto tutto o quasi di me», dichiarò un giorno lo scrittore a cui era cara la logica dell’essere piuttosto che quella dell’apparire.
Osserva Lorenzo Del Boca nella prefazione a «L’altro Pavese», un saggio di Paolo Sanna (editore Carlo Delfino, Sassari 2000): «Lo accusarono di disimpegno, di fuga dalle responsabilità. Gli rinfacciarono di essere stato assente nei momenti più caldi. Tentarono di attribuirgli debolezze mentali e fisiche. Ne fecero un ghettizzato».
Il falegname Pinolo Scaglione (1900-1990), il Nuto del romanzo «La luna e i falò» (1950), fu l’amico e il confidente dello scrittore. Intervistato da Anna Maria Soria, riferì: «Quante volte Cesare mi ha detto: l’unico amico che m’è rimasto sei tu, tutti gli altri non mi hanno capito. Adesso tutti dicono: Pavese chiuso, Pavese scontroso. Io ammetto che nel loro intimo abbiano realmente giudicato in questo modo Pavese, ma il motivo di questo suo comportamento non l’hanno capito. Pavese non era uno di quelli – e sono i più – che su qualsiasi argomento vogliono avere ragione. Egli diceva una cosa, se si confutava insisteva una volta, poi si chiudeva e non rispondeva più».
Il torinese Albergo Roma come appare oggi. Pavese vi si tolse la vita il 27 agosto di settantacinque anni fa
Proprio nel 1950, al culmine del successo, Cesare Pavese ricevette il Premio Strega. Il 18 agosto, nell’ultima pagina del diario «Il mestiere di vivere», annotò: «La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? Basta un po’ di coraggio. Più il dolore è determinato, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio. Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Sette giorni più tardi Pavese indirizzò una lettera a Davide Lajolo: «Ora non scriverò più. Con la stessa stoica volontà delle Langhe farò il mio viaggio nel regno dei morti... Meno parlerai di questa faccenda con “gente”, più te ne sarò grato».
Su «Stampa Sera» del 28 agosto i torinesi lessero: «Lo scrittore Cesare Pavese è stato trovato cadavere ieri sera in una stanza d’albergo. La morte, secondo il referto medico, è stata provocata dall’ingerimento di una forte dose di veleno e di sonnifero».
«Se mi avesse ascoltato, se fosse venuto a Santo Stefano Belbo, sono certo che non si sarebbe ucciso!», dichiarerà Pinolo Scaglione, anni dopo.
Ebbe a commentare la scrittrice Gina Lagorio, originaria di Bra: «Ci si chiese allora, come ancora oggi ci si chiede, il perché di questa tragica fine. Niente è più misterioso del cuore dell’uomo, e nessuno può presumere di arrivare a capire sino in fondo le ragioni che muovono un altro essere. Quello che conta di uno scrittore è ciò che egli ha lasciato di sé agli altri, con la sua fatica di studioso, la sua forza morale, la sua fantasia».
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