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Ombre su Torino

Quell’amore malato di Pasquale e Caterina finito in tragedia a Mirafiori

La scomparsa di Caterina Cassineri, le bugie di Pasquale Scagliola e il delitto sotto gli occhi di una bambina: una storia di violenza e ossessione che sconvolse Torino negli anni del boom industriale

Quando finisce l'amore e inizia la tragedia.

Carla ha nove anni ed è una bella bimba, molto sensibile ed intelligente. Viene ricoverata alla Clinica Pediatrica dell’Università di Torino qualche giorno prima del 25 dicembre 1962, colpita da un’aggressiva malattia polmonare di origine turbercolotica. Probabilmente, quell’anno, a Babbo Natale ha chiesto soltanto di uscire da lì il prima possibile, anche se non passa giorno senza ricevere qualche regalino.

Ogni mattina, suo padre, Pasquale, e la donna con cui vive da diciassette anni, che Carla chiama affettuosamente "mamma" anche se non lo è veramente, le fanno visita. La piccola, infatti, è nata da una relazione tra l'uomo e la sua ex segretaria, ma questo non è mai stato un problema: la signora Caterina la ama incondizionatamente, come se fosse sua figlia.

La salute cagionevole della bambina è l'unico legame che tiene ancora unita la coppia. Pasquale e Caterina convivono da sei anni in un alloggio in via Sempione 122, a Barriera di Milano, nella zona nord di Torino. Sulla porta è affissa l'insegna "ufficio commerciale", in quanto l'uomo dichiara di essere il titolare di un'agenzia di pratiche auto. Tuttavia, in realtà, nessuno svolge alcuna attività lavorativa in quella sede. La struttura, così come l'assunzione di Caterina come domestica, è solo una facciata. La donna, infatti, si prostituisce, guadagnando 15.000 lire al giorno, e il suo compagno ne sfrutta "i servizi".

I due litigano di continuo, e i vicini sono involontari testimoni dei loro continui alterchi. Descrivono Pasquale come un uomo geloso, autoritario e irascibile. Riferiscono che picchia spesso Caterina e che, nei momenti di rabbia, l'ha minacciata più volte di morte, avvertendola che se lo avesse lasciato avrebbe fatto una brutta fine. L'amministratore del condominio li ha definiti "inquilini indesiderabili", non solo per i rumori molesti ma anche perché non pagano l'affitto con regolarità.

Il 21 gennaio 1963, Caterina esce di casa per recarsi all'ospedale Maria Vittoria a farsi fare un'iniezione. Dice al convivente che sarebbe tornata per pranzo, ma scompare nel nulla. Inizialmente Pasquale non si preoccupa, ma dopo un paio di giorni comincia a cercarla. Perlustra ogni angolo di Torino e si spinge fino al Novarese, terra d'origine della donna, senza però trovarla.

Disperato, si presenta alla sede de La Stampa chiedendo di pubblicare una fotografia di Caterina e un appello per ritrovarla. "Aiutatemi a ritrovare mia moglie," implora, "Non è proprio mia moglie, ma è come se lo fosse. Scrivete che da quando se n'è andata la nostra bambina in ospedale non fa che piangere". Quando gli chiedono se ci fosse un motivo per la sua fuga, risponde: "No, eravamo felici. Da un po' di tempo non stava bene, forse ha perso la memoria". Il 30 gennaio, La Stampa Sera pubblica l'immagine con il seguente titolo: "Scompare nel tragitto da casa all'ospedale: forse vaga in preda ad amnesia".

Qualcuno, leggendo il giornale, riconosce la quarantenne che da una settimana abita con un certo Gallo in un appartamento in corso Orbassano 274. Caterina lo ha conosciuto durante una delle sue "squallide notti di corso Massimo D'Azeglio", come le definivano i giornali dell'epoca, e, oltre ad avere una relazione con lui, aveva anche ascoltato la sua storia. Gallo aveva vissuto gran parte della sua vita in Algeria per poi emigrare a Torino nel 1956. Era arrivato con la moglie e le loro due bambine, Giovanna e Cristina, che all'epoca dei fatti avevano otto e sei anni. Il problema era che, nel 1960, la consorte lo aveva abbandonato scappando in Francia, lasciandolo in una situazione di gravi difficoltà economiche e pratiche, dovendosi occupare da solo delle figlie.

In uno dei loro ultimi incontri, Gallo aveva offerto a Caterina una via d'uscita: le aveva proposto di lasciare quel lavoro degradante e il fidanzato violento per trasferirsi a casa sua, dove si sarebbe potuta occupare del ménage familiare e delle bambine. "Vedrai, ti chiameranno mamma." le aveva detto.

31 gennaio 1963.

All'epoca, Torino è in pieno sviluppo, spinta anche dalla massiccia immigrazione dal Sud Italia, dovuta alla presenza della FIAT. Non deve stupire, quindi, che nell’isolato tra corso Orbassano e via Pertinace, a Mirafiori, non ci sia sostanzialmente nulla se non arbusti ed erbacce dove i bambini giocano a calcio.

Caterina Cassineri, 43 anni, sta camminando mano nella mano con la piccola Giovanna Gallo per andare a prendere a scuola la sorellina minore, Cristina. Improvvisamente, da un cespuglio spunta un uomo che le raggiunge e si ferma davanti a loro, bloccandole il passaggio: è Pasquale Scagliola, il suo ex convivente.

"Cosa vuoi?" chiede Caterina. "Che tu ritorni con me." risponde lui. "No, lasciami stare, mi hai rovinata. Voglio vivere in pace". Mentre discutono, Pasquale afferra il braccio di Caterina e la scuote. Giovanna scoppia in lacrime e si rivolge direttamente all'uomo: "Lascia stare la mamma!" gli urla. A quelle parole, Scagliola estrae una pistola e spara un colpo al petto della Cassineri, che cade a terra portandosi le mani al volto. Mentre la bambina fugge terrorizzata, l'assassino spara altri sei proiettili che colpiscono il viso della vittima, trapassandole le mani. Poi si allontana con calma e freddezza, ma dopo qualche istante si volta, inserisce un altro caricatore nell'arma e scarica altre sei pallottole sul corpo inerme.

Oltre a una donna che corre a chiedere aiuto in una drogheria vicina e a Giovanna che urla entrando in una panetteria, in strada ci sono molti testimoni oculari. Uno di loro, il ventiquattrenne Giuseppe Lorusso, vede tutta la scena e nota Scagliola che getta a terra la rivoltella. Il giovane la raccoglie e ferma una Fiat 500, chiedendo ai suoi occupanti, i radiotecnici Amilcare Giaccardi e Felice Savogin, di caricarlo e seguire il killer. I tre lo raggiungono e, con l'aiuto di un agente in pensione, il signor Tropea, lo immobilizzano e lo portano al commissariato di Mirafiori.

Qui, l'omicida nega sia di essere il colpevole sia di conoscere la Cassineri. Tuttavia, quando gli trovano in tasca una sua foto e la pagina de La Stampa che raccontava della sua scomparsa, cambia versione. Inizialmente, accusa Gallo del massacro, ma quando gli investigatori dimostrano che il suo rivale era al lavoro, sostiene di aver sparato per legittima difesa, affermando che con la donna ci sarebbe stato un altro uomo armato di coltello. Racconta che durante una colluttazione i colpi mortali sarebbero partiti per sbaglio.

A quel punto, con un inganno, il commissario di turno finge di chiamare in ospedale, riferendo a Scagliola che Caterina è viva e sta bene, e che dopo averle fatto delle trasfusioni sarà possibile interrogarla. Sono le 19 e Scagliola crolla: "La cercavo da dieci giorni, ero pazzo senza di lei. Quando quella bambina l'ha chiamata 'mamma' ho capito che l'avevo persa per sempre". Poi aggiunge: "Sono convinto di essere liberato presto. L'ho uccisa perché questo era un mio diritto: non si può tradire così un uomo dopo tanti anni che si vive con lui".

Durante il processo, l'imputato nega nuovamente la sua partecipazione al delitto e fornisce un'altra versione ancora. Racconta che il 31 gennaio 1963 si era imbattuto per caso nella Cassineri, che era in compagnia di Gallo. Afferma di aver avuto una discussione con Caterina, che pretendeva la regolarizzazione del suo libretto di lavoro come domestica. Secondo lui, Gallo era intervenuto bruscamente e i due avrebbero cominciato a litigare; erano entrambi armati, e l'omicidio sarebbe stata solo una formalità.

Abbandonato persino dai suoi stessi avvocati, che non riescono a sostenere una tesi così strampalata, Pasquale Scagliola viene condannato in primo grado a 30 anni di reclusione nell'aprile del 1964.

L'anno successivo, durante l'appello, alla fine di una serie concitata di udienze, confessa finalmente: "Lo sparatore ero io, il Gallo non c'entra e non era presente. Ho sparato alla Cassineri perché mi disse: 'Non vado a trovare la tua bastarda'". Poi aggiunge: "Mi diede uno schiaffo, mi sputò in faccia e mi colpì con la borsetta sulla testa. Io volevo che tornasse a vedere mia figlia, gravemente ammalata in ospedale. Non è vero che l'abbia sfruttata".

Questa sua ultima versione non migliora la sua situazione, anzi. Quasi "offeso" da tanta sfrontatezza, il procuratore generale Jannelli insorge: "In questa tragica vicenda è impossibile sostenere la provocazione. Costui ha ucciso solo per vendetta e non merita alcuna attenuante. Per diminuire le sue responsabilità non ha esitato a ricorrere alla menzogna e alla calunnia. La legge vi impone di non farlo più uscire dal carcere".

Il 20 aprile 1965, Scagliola viene condannato all'ergastolo.

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