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21 Agosto 2025 - 22:03
Stefano Lo Russo
Torino non si accontenta più di stare nel mucchio, vuole primeggiare. La multiutility Iren, che mette insieme comuni e interessi dal Nord-Ovest all’Emilia, è diventata il nuovo terreno di conquista per il sindaco Stefano Lo Russo, deciso a smettere i panni del comprimario e a recitare la parte del protagonista. E così, mentre a Genova la neo-sindaca Silvia Salis ancora prende confidenza con le scale di Palazzo Tursi, Torino alza la posta e prepara le sue mosse per ridisegnare i rapporti di forza.
Non è una semplice questione aritmetica, ma di potere vero e proprio. A marzo 2025, la Città Metropolitana di Torino — toh, guarda — ha firmato un assegno da 83 milioni di euro per portarsi a casa 37.370.553 azioni di Iren, a 2,221 euro l’una. Un’operazione condotta attraverso Metro Holding Torino (MHT) che ha fatto impennare la quota dal 2,498% al 5,371%. Sommando il tutto alla partecipazione del Comune tramite la Finanziaria Città di Torino (FCT), il totale sfiora il 19,171%. E qui scatta il sorpasso: Torino supera Genova, ferma al 18,85%. Un traguardo che sa tanto di rivincita: per la prima volta il capoluogo piemontese può guardare dall’alto in basso i vicini liguri. Dietro arrancano Reggio Emilia con l’11,65% e Parma con un modesto 3,16%.
Il colpo, però, non è solo simbolico. Con Metro Holding e FCT che si muovono all’unisono, Torino ha ora un pacchetto di potere che consente di pesare molto di più nelle decisioni e, dettaglio non da poco, nelle nomine. In altre parole: più azioni, più poltrone. Un’equazione semplice che spiega meglio di qualunque comunicato l’attivismo del sindaco.
Ed è qui che l’ironia della storia affiora. Nel 2014, la Provincia di Torino, guidata da Antonino Saitta, vendeva le azioni Iren considerandole estranee ai compiti istituzionali. Oggi la Città Metropolitana le ricompra con entusiasmo, come chi svende i mobili della nonna e poi, qualche anno dopo, spende il triplo per riacquistarli in un mercatino dell’antiquariato. Non è certo la prima volta che accade: basti ricordare la “giostra” del 2018 targata Chiara Appendino, quando il tira e molla sulle azioni finì sotto la lente della Corte dei Conti.
Mentre Torino brinda al sorpasso, a Reggio Emilia serpeggia il timore che Lo Russo voglia forzare la mano fino al punto di chiedere un azzeramento dei vertici, freschi di rinnovo per il triennio 2025-2027. Una mossa che significherebbe guerra aperta. Intanto, a Genova, Lo Russo strizza l’occhio non tanto alla neo-sindaca Salis, considerata ancora troppo “novellina”, quanto al suo vice Alessandro Terrile, volto navigato del Pd ligure, ex segretario provinciale e fedele orlandiano. È lui la pedina su cui Torino vorrebbe costruire un asse privilegiato.
Il tutto si inserisce dentro un meccanismo già complicato: il patto parasociale che regola la governance di Iren. L’ultima versione, approvata nel 2024, ha introdotto il rinnovo tacito triennale (salvo disdetta entro 180 giorni) e sancito la primazia torinese, affidando a FCT il ruolo di mandataria di Metro Holding. In pratica, Torino ha già messo il timbro sulla propria centralità.
E infatti, la prima linea di comando parla chiaro. Il presidente Luca Dal Fabbro, in quota Torino, è diventato una sorta di superministro con deleghe che spaziano dalla Comunicazione alle Relazioni internazionali, dall’Innovazione alla Finanza. Un potere che ha ridimensionato l’ad Gianluca Bufo, espressione di Genova, relegato a gestire l’ordinaria amministrazione. Da Reggio Emilia, il vicepresidente Moris Ferretti si consola con Affari Societari, Csr e Personale. Per la prima volta, tutti e tre i vertici sono anche dirigenti. Una misura nata per tappare i buchi dopo l’arresto dell’ex ad genovese Paolo Emilio Signorini, ma diventata l’assetto definitivo con la scalata torinese.
Ma Lo Russo non si ferma qui. Secondo indiscrezioni, starebbe pensando di piazzare un nuovo ad con pieni poteri, ridimensionando ulteriormente i soci “minori”. Il nome di Dal Fabbro non convince, ma il segnale politico è lampante: Torino vuole comandare. E non lo nasconde neppure nelle conversazioni più riservate, dove spunta spesso il nome del commercialista Gianni Maria Stornello, classe 1940, uomo di fiducia dell’entourage Pd e presenza costante nei collegi sindacali delle controllate. È lui che, secondo le voci, avrebbe confessato che Lo Russo mira a diventare il “dominus” di Iren.
E guardando le nomine, il disegno appare già realizzato. Il consiglio di amministrazione sembra il solito mosaico di campanili e appartenenze politiche: oltre a Dal Fabbro, Ferretti e Bufo, troviamo i genovesi Sandro Mario Biasotti, Cristina Repetto, Paola Girdinio, i torinesi Francesca Culasso, Giuliana Mattiazzo, Patrizia Paglia, i reggiani, i parmigiani, i piacentini e perfino rappresentanti di fondi d’investimento. Tutti insieme, in un grande condominio che assomiglia più a una spartizione politica che a un cda di una quotata.
Nelle società operative, lo schema si ripete: Torino domina. Enzo Lavolta, ex assessore di Fassino, è presidente di Iren Ambiente. In Iren Energia c’è Cristina Battaglia alla presidenza e Giuseppe Bergesio ad. In Iren Mercato, i genovesi resistono con Luigino Montarsolo, ma nel board entra il commercialista torinese Giulio Prando. In Ireti, i parmigiani tengono la presidenza con Giacomo Malmesi, ma i genovesi gestiscono l’ad. E nelle controllate, è un tripudio di nomi torinesi: Paola Bragantini e Enrico Clara ad Amiat, Alessandro Battaglino a Trm, Luca Cassiani a Iren Green Generation. Tutti ben piazzati, come in un gigantesco Risiko a tinte sabaude.
Non mancano nemmeno i professionisti torinesi nei collegi sindacali, in un intreccio che lega via San Quintino, via Milano e corso Inghilterra. Il filo rosso è sempre quello: consolidare il dominio torinese.
Il problema è che un simile accentramento rischia di spaccare gli equilibri delicatissimi su cui si regge la multiutility. A Genova e Reggio Emilia già mugugnano, e l’idea di un azzeramento dei vertici potrebbe trasformarsi in uno scontro aperto. Senza contare che, essendo Iren quotata in Borsa, certe manovre vanno maneggiate con cura. Perché la politica può anche giocare a Risiko, ma la finanza ha regole diverse, e certe volte molto più spietate.
Torino, intanto, procede per la sua strada. Lo Russo ha piazzato uomini, consolidato deleghe, firmato assegni milionari e si è ritagliato un ruolo da regista assoluto. La domanda, ora, è se riuscirà davvero a trasformarsi nel padrone incontrastato di Iren o se finirà per risvegliare più nemici che alleati. Una cosa è certa: a Torino la parola d’ordine è “contare di più”. E se qualcuno pensa di ridimensionarla, troverà il sindaco pronto a ricordare che chi ha le azioni… detta la linea.
ANNA BACCON, LUCA DAL FABBRO, ROBERTO SOLER, GIOVANNI GAZZA, LUCIA SAVINI e GIULIO DOMMA (Imago)
C’è un vizio tutto italiano: i sindaci che, invece di occuparsi di buche, scuole, trasporti e mense scolastiche che servono minestre con gli “ospiti”, si improvvisano capitani d’industria. A Torino, il sindaco Stefano Lo Russo è l’ultimo della serie: invece di asfaltare strade e garantire autobus puntuali, si è messo a giocare con pacchetti azionari da milioni di euro come un broker della City.
La partita è quella di Iren, la multiutility che gestisce luce, gas, rifiuti e acqua per milioni di cittadini. Una società che dovrebbe essere amministrata con sobrietà, perché parliamo di servizi essenziali, ma che ormai sembra più il Monopoli dei sindaci azionisti. Lo Russo, a marzo, ha firmato un assegno da 83 milioni di euro (non spicci, soldi veri) per portarsi a casa oltre 37 milioni di azioni. Risultato: Torino supera Genova e diventa primo azionista. Non una notizia per i cittadini che chiedono più sicurezza o meno tasse, ma un trionfo per i cronisti finanziari.
La scena è grottesca: sindaci che dovrebbero risolvere i problemi quotidiani, e invece si scannano per chi comanda in un cda. A Genova la sindaca Silvia Salis ha appena messo piede in ufficio e già deve difendersi dall’offensiva torinese. A Reggio Emilia temono che Lo Russo chieda addirittura un azzeramento dei vertici, come se cambiare poltrone fosse la risposta alle bollette sempre più care.
Intanto, a Torino si costruisce un impero di nomine. Ex assessori, ex parlamentari, commercialisti di fiducia, accademici in quota Pd: una ragnatela che occupa cda, presidenze, collegi sindacali. Altro che partecipazione civica, qui siamo alla partecipazione societaria. Se non fosse tutto vero, sembrerebbe la trama di una commedia all’italiana: i sindaci che giocano a Risiko con le azioni, mentre i cittadini contano i centesimi per pagare le bollette di quella stessa multiutility.
E c’è un dettaglio che rende la faccenda ancora più comica, se non fosse tragica. Nel 2014, la Provincia di Torino vendeva le sue azioni Iren perché “estranee ai compiti istituzionali”. Oggi la Città Metropolitana le ricompra, spendendo il triplo. Stesso copione già visto con la Appendino, finita pure sotto l’occhio della Corte dei Conti. Insomma: compra, vendi, ricompra. Tanto mica pagano loro, ma i contribuenti.
Il punto è che questi sindaci non si limitano a fare politica, vogliono fare gli imprenditori senza rischiare di tasca propria. Si atteggiano a manager, si dividono le deleghe come se fossero portafogli di investimento e intanto coltivano ambizioni personali, sempre più lontane dalle esigenze reali delle città. Il risultato? Un sistema di potere che si autoalimenta, dove l’interesse pubblico diventa l’ennesima scusa per giustificare il controllo sulle società partecipate.
Il cittadino medio, quello che aspetta un autobus che non passa o trova il quartiere al buio, si chiede: ma davvero la priorità è accumulare azioni e poltrone? Forse sì, perché l’immagine del sindaco che compra pacchetti azionari rende molto più di quella del sindaco che si sporca le mani con i problemi di tutti i giorni.
Alla fine, il messaggio è chiaro: i sindaci italiani non vogliono più essere amministratori. Vogliono essere azionisti di maggioranza. E pazienza se, nel frattempo, i servizi peggiorano. Perché la vera partita non è nelle strade delle città, ma nei cda delle multiutility. Dove non si decide se riparare una scuola o un marciapiede, ma chi si prende la poltrona più comoda.
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