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18 Agosto 2025 - 15:26
La strada si arrampica lenta, curva dopo curva, come se anch’essa pregasse insieme a chi la percorre. Ogni tornante è un respiro più profondo, ogni salita un passo che porta lontano dalla vita quotidiana, verso un altrove che non appartiene al rumore del mondo. I boschi avvolgono il cammino con il loro verde fitto, una cattedrale di foglie che lascia filtrare solo i raggi di sole più tenaci. Io siedo accanto all’amico che guida: il suo silenzio, scandito dal ritmo del motore, sembra già preghiera. Dietro di noi, tra risate leggere e confidenze intime, mia moglie e la sua cara amica accompagnano la salita con parole che scivolano via come acqua di sorgente. Il sole, entrando a tratti dal finestrino, ricama d’oro i rami più alti, quasi a voler benedire il nostro andare. È allora che il bosco sembra sussurrare: lasciate qui le vostre fatiche, vi porto io in un altro tempo. E davvero ogni curva diventa un passo verso il raccoglimento, ogni raggio un invito a spogliarsi della fretta e dei pensieri.
Poi, come un’apparizione, il Santuario. Non irrompe con clamore, ma si mostra con la discrezione dei luoghi sacri: un piccolo gioiello incastonato in un prato segreto, quasi timido nel suo offrirsi allo sguardo. È lì, a 1320 metri, dove la terra incontra il cielo senza ostentazione, ma con la semplice naturalezza delle cose pure. Lo guardo e penso a tutte le generazioni che prima di noi hanno percorso quella strada, a piedi o con mezzi ben più scomodi, portando nel cuore preghiere, speranze, lacrime e sorrisi. Ogni pietra, ogni muro, racconta di passi antichi che non si sono mai spenti.
Ad accoglierci c’è Valter, un concittadino favriese. Ha un sorriso che profuma di casa e negli occhi una luce che non conosce spegnimento. Ci accompagna con passo calmo, quasi a volerci insegnare che in quei luoghi si cammina diversamente: non per arrivare, ma per rimanere. Poco dopo si unisce un altro volontario. Le loro voci si intrecciano come due strumenti in armonia, e nel racconto nasce un canto: quello di Giovannino Berardi e del miracolo che ha dato origine a quel Santuario. Non è un ricordo scolorito, ma una narrazione viva, che vibra nell’aria come se fosse accaduta ieri. Li ascolto con gratitudine, come si ascolta un vecchio amico al tramonto, quando le parole hanno il sapore dell’eterno. Dentro di me germoglia un pensiero semplice e potente: in un mondo che corre senza sosta, qui resiste una voce che non mente, una voce che parla di verità.
Entriamo nelle navate. Le volte si alzano come mani giunte in preghiera. Le immagini sacre fissano sguardi che attraversano i secoli e ti raggiungono dentro, senza bisogno di parole. Nel museo annesso, gli oggetti parlano di una fede concreta: rosari consumati dalle dita, ex voto pieni di gratitudine, segni di vite umili che hanno trovato qui conforto e risposta. Cammino piano, come se stessi attraversando l’anima di chi prima di me ha creduto e sperato. Penso che la fede sia davvero un filo sottile ma indistruttibile: passa di mano in mano, di cuore in cuore, tenendo unite le generazioni senza mai spezzarsi. E in quel momento, tra noi quattro, colgo un accordo silenzioso: non siamo lì soltanto come visitatori, ma come amici che condividono qualcosa di infinitamente più grande.
Quando usciamo, il sole è ancora alto ma già promette il tramonto. Valter e il suo compagno di servizio rimangono con noi, anche se fisicamente si allontanano: le loro parole hanno lasciato un seme. È un invito discreto, ma fortissimo, a fermarsi, ad ascoltare, a ritrovare il senso del sacro nel quotidiano. È come se ci avessero consegnato una chiave invisibile, capace di aprire stanze segrete dentro di noi.
Più tardi ci sediamo all’aperto, davanti al Santuario. Il cielo si tinge di rosa e d’oro, mentre le montagne intorno si fanno scure, immobili guardiani del mistero. L’aria è fresca, quasi pungente, e porta con sé profumi di resina, di erba bagnata, di terra viva. Non c’è bisogno di parlare molto: il silenzio è pieno di significati, abitato dal canto degli uccelli e dal respiro lento della natura. È un silenzio che guarisce, che accoglie, che consola.
E allora comprendo davvero. Questo giorno non è stato solo una gita, né semplicemente una visita. È stato un dono. Un dono di amicizia che si rinnova, di pace che riaffiora, di spiritualità che si riaccende come brace sotto la cenere. È stato un giorno che ci ha riportati all’essenziale, ricordandoci che la vita ha senso solo quando si lascia spazio al silenzio, alla fede e all’amore condiviso.
Scendiamo verso valle con passi lenti, ma leggeri. Le ombre si allungano sui sentieri, eppure dentro di me resta una luce che non conosce buio. Una luce semplice, discreta, come quella che abita i cuori che credono davvero. So che porterò con me a lungo la grazia di questo agosto di fede e amicizia, vissuto al Santuario di Prascondù: un luogo che non si dimentica, perché non appartiene solo alla memoria, ma all’anima.
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