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Ombre su Torino
17 Agosto 2025 - 19:14
Dieci anni di botte, umiliazioni e vino. Poi, quella notte Maria di Ciriè prese un coltello e l’inferno finì in un lago di sangue
Inferno.
A descriverlo come si farebbe sui libri, nei trattati di un filosofo o in un'immaginaria rappresentazione, ne emergerebbero fiamme, punizioni da girone dantesco, creature che latrano con suoni disumani, morte ed eterna distruzione.
Eppure, la realtà, la vita di tutti i giorni, la quotidianità, offrono degli spaccati in cui tante piccole circostanze si accumulano, una in fila all'altra. Seguono lo scorrere inesorabile del tempo e, quando il limite viene superato, esplodono improvvisamente.
Fatalmente, terribilmente. Senza appello.
È il 14 gennaio 1974 e, da circa dieci anni, in casa Baravalle c’è l'inferno.
Quello vero.
Siamo a Ciriè, una ventina di chilometri a nord di Torino, in una casa a due piani in località Case Sparse Ricardesco 107. La famiglia si era trasferita lì l'anno precedente da Collegno. Al piano terra c'è un garage con la legnaia, una piccola serra con i gerani e la cucina; al piano superiore le camere da letto e il salotto. Sul retro, l'orto e il pollaio.
Ci abitano Pietro Baravalle, 52 anni, la moglie Maria Lanzetti, 50, e i figli Aldo e Federico, di 19 e 11 anni. L'uomo è in pensione dopo una vita da operaio, la moglie è casalinga e il figlio maggiore fa l'apprendista in una macelleria. Dal punto di vista economico, la famiglia non se la passa male. L'alloggio è di nuova costruzione, arrivano a fine mese senza problemi e possono contare anche sulla rendita mensile di un bilocale che hanno messo in affitto.
Inoltre, a Pietro era stata riconosciuta un'invalidità: dopo aver passato sei anni prigioniero in Russia al termine della Seconda guerra mondiale, ha sviluppato un'aggressiva forma di silicosi, una malattia polmonare. È questo il motivo, almeno secondo le sue parole, che ha creato una netta cesura nella sua vita: il prima e il dopo.
Da quando non ha più un'occupazione fissa, si diletta per qualche ora al giorno in campagna e si compra un trattore. Il resto del tempo lo passa a ripetere la stessa litania: "La mia vita? Una disgrazia dietro l'altra: prigionia, lavoro, malattia, sono un poveraccio". Spaventato dalla morte che, nella sua mente, gli appare imminente, si riscopre avaro, timoroso di vedere la sua famiglia cadere in miseria.
Incolpa Maria di essere troppo tollerante coi figli, di viziarli, arrivando, in poco tempo, a prendersela anche direttamente con loro. Li accusa di non lavorare, di non contribuire al bilancio familiare e di "non portare i soldi a casa", sostenendo che guardano troppa televisione e perdono tempo.
Li definisce sprezzantemente "principini", criticandoli dalla mattina alla sera e rinfacciando, ad esempio, la sua terribile situazione di salute al figlio Aldo, "colpevole" di essersi iscritto alla scuola guida per prendere la patente.
Sarebbe già abbastanza, ma non è tutto. In questa discesa negli inferi, Pietro ha iniziato a bere. Praticamente ogni sera, cena con i suoi cari, li ricopre verbalmente di miseria e poi si reca, a turno, in alcune osterie della zona. Torna regolarmente tardi, ubriaco, spesso completamente fuori di sé. Il vino trasforma le parole in botte e a farne le spese è principalmente la signora Maria, anche se spesso le mani pesanti dell'uomo si abbattono anche sui visi dei figli.
La moglie sopporta stoicamente, convinta di poterlo cambiare, che sia solo un periodo e che, resistendo, riuscirà a farlo smettere. Dal canto suo, Pietro, quando torna sobrio, si pente, dice che non lo farà più, riconosce i suoi torti e ripete che avrebbe smesso di bere.
14 gennaio 1974, ore 21.
Pietro Baravalle rincasa dopo il suo solito giro serale. I familiari lo sentono aprire la porta tra urla e conati di vomito. Barcollando, si dirige in cucina e, quando incontra Aldo, appena tornato da una lezione di guida, lo apostrofa così: "Guarda il signorino. E io che mi sono rovinato la vita per voi". Gli intima di andare a letto, ma il diciannovenne gli risponde che avrebbe dormito lì tutta la notte. Federico, invece, scuote la tovaglia e, vedendo la scena, si mette ad applaudire ironicamente. Il più piccolo si becca un paio di sberle, mentre al grande prima viene scagliata addosso una sedia e poi direttamente il tavolo.
È a quel punto che dieci anni di esasperazione si impossessano di Maria. La donna afferra la prima cosa che le capita sottomano, un grosso coltello da cucina, e si avventa contro il marito. Lo colpisce alla gola, due volte al petto e una alla spalla destra.
Baravalle, impreparato a una simile reazione, non riesce a difendersi e crolla in un lago di sangue, morto sul colpo.
È a questo punto che, inspiegabilmente, i tre lasciano il cadavere dove si trova e iniziano un macabro pellegrinaggio. Prima vanno a Robassomero, dove avvertono il titolare della macelleria in cui lavora Aldo, poi a Cafasse, dove abita un fratello di Baravalle, e infine ad Alpignano dove c'è il fratello della Lanzetti.
Quando tornano, trovano i carabinieri che stanno tentando di forzare la porta della loro abitazione, avvertiti dai vicini. Maria li vede e, ancora sull'uscio, confessa immediatamente: "Sono stata io", scoppiando in lacrime.
Al processo, difesa dagli avvocati Chiusano e Masselli, la donna, oltre a riconoscere le sue colpe e a narrare con dovizia di particolari gli ultimi dieci anni del suo personale inferno coniugale, decide, per ottenere un'ulteriore attenuante, di risarcire i danni spogliandosi di ogni suo avere, intestando case e terreni a suo figlio Aldo.
Di contro, nella sua requisitoria, il Pubblico Ministero, pur riconoscendo all'uxoricida ampie giustificazioni dovute alle continue provocazioni subite, invita la corte a riflettere non soltanto sul dramma dell'assassina ma anche su quello dell'uomo: "Non dimentichiamoci che la vittima era ammalata di silicosi e aveva dovuto abbandonare il lavoro. Costretto a casa tutto il giorno, Pietro Baravalle aiutava la moglie nelle faccende domestiche e assisteva impotente al suo declino di uomo e di lavoratore. È comprensibile che fosse sempre di cattivo umore e facile all'ira. E poi non credo che la cattiveria stia sempre da una parte sola. Concedete pure le attenuanti alla donna, ma condannatela per omicidio volontario. È chiaro che l'imputata ha afferrato il coltello non per difendere i figli o sé stessa, non per spaventare il marito, ma per ucciderlo".
Il 29 aprile 1975, Maria Lanzetti viene condannata a otto anni di reclusione.
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