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Vertice tra i ghiacci Washington–Mosca: lezioni dal passato sul filo della storia

Dal gelo dell’Alaska all’eredità della Guerra Fredda, dall’ultimatum di 12 giorni al nodo delle concessioni territoriali: il vertice di metà agosto tra Trump e Putin si carica di simboli e tensioni. Lo storico Giovanni Savino, esperto di nazionalismo russo ed ex docente a Mosca, ripercorre i precedenti e spiega perché tregue e “baratti territoriali” restano un terreno minato nella diplomazia internazionale

Vertice tra i ghiacci Washington–Mosca: lezioni dal passato sul filo della storia

Lo storico Giovanni Savino offre la sua chiave di lettura sul vertice tra Trump e Putin, tra simboli, precedenti storici e rischi di un passo falso.

Il vento del Mare di Bering graffia la pelle come una lama sottile, eppure il gelo più profondo è quello che si avverte nei corridoi della diplomazia. Donald Trump e Vladimir Putin, il 15 agosto, si apprestano a incontrarsi su questo lembo di terra che separa e unisce due mondi, per discutere di un cessate il fuoco in Ucraina. Trump aveva fissato un ultimatum di “10–12 giorni” per arrivare a un accordo, ma le onde dell’oceano sembrano scandire un conto alla rovescia che risuona ben oltre l’Alaska. Nel suo secondo mandato, il presidente americano appare determinato a condurre la politica estera con mosse imprevedibili, ritmi fulminei e una regia studiata per catturare l’attenzione globale, in puro stile reality. In questo paesaggio sospeso, è inevitabile chiedersi: cosa avrebbero fatto i presidenti del passato di fronte a una situazione così tesa?

Negli anni Quaranta, Harry S. Truman affrontò l’Unione Sovietica con la dottrina che portava il suo nome: sostenere i popoli liberi contro ogni oppressione armata, rafforzando le difese e non concedendo territori, come sancito dal documento NSC-68. Due decenni dopo, John F. Kennedy, durante la crisi dei missili di Cuba, bilanciò fermezza pubblica e compromesso segreto: blocco navale ufficiale, ma anche il ritiro dei missili americani in Turchia in cambio di quello sovietico da Cuba, trattando su asset strategici e non su terre conquistate. Richard Nixon e Gerald Ford cercarono la distensione con gli accordi SALT I, mantenendo intatta la mappa del mondo. Jimmy Carter fece della difesa dei diritti umani un cardine, rifiutando compromessi che legittimassero invasioni, come nel caso dell’Afghanistan. Ronald Reagan negoziò da una posizione di forza, firmando l’accordo INF senza mai mettere in discussione i confini. George H. W. Bush ribadì lo stesso principio durante la guerra del Golfo. Bill Clinton, infine, con il Memorandum di Budapest garantì l’integrità territoriale dell’Ucraina: un impegno che oggi riecheggia tra i ghiacci dell’Alaska.

Sul versante sovietico e poi russo, Iosif Stalin vedeva nei negoziati uno strumento per consolidare quanto guadagnato sul campo; Nikita Chruščëv era maestro di brinkmanship, disposto a cedere solo in cambio di vantaggi equivalenti. Leonid Brežnev usava la “sovranità limitata” per mantenere saldo il blocco, preferendo tregue che sancissero lo status quo. Michail Gorbačëv, con il “nuovo pensiero”, cercò invece un dialogo multilaterale che includesse disarmo e garanzie condivise, mentre Boris El’cin, pragmatico e orientato all’Occidente, avrebbe probabilmente privilegiato una mediazione politica ed economica piuttosto che scambi territoriali.

In questo scenario, l’Alaska non è soltanto un luogo simbolico, sospeso tra due potenze, ma anche uno specchio in cui si riflettono decenni di strategie contrapposte. I presidenti americani del passato, indipendentemente dall’appartenenza politica, hanno sempre rifiutato di premiare l’aggressione territoriale; i leader sovietici e russi, invece, hanno spesso cercato di tradurre i successi militari in riconoscimenti giuridici o strategici.

Tra i ghiacci e il silenzio teso delle sale conferenze, Trump e Putin si apprestano a muoversi su un terreno dove ogni parola può valere quanto un esercito e ogni silenzio può pesare più di un trattato. Le lezioni della storia non offrono risposte semplici, ma indicano una direzione: la pace che nasce da concessioni territoriali è fragile come il ghiaccio sotto i piedi. E in Alaska, basta un passo falso perché si spezzi.

Giovanni Savinodocente di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, specialista di nazionalismo russo ed ex docente a Mosca.

Per comprendere a fondo le implicazioni storiche, strategiche e simboliche di questo vertice, abbiamo intervistato Giovanni Savino - docente di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, specialista di nazionalismo russo ed ex docente a Mosca - che ci aiuta a interpretare rischi, precedenti e incognite dell’appuntamento di agosto. Costretto a lasciare la Russia per la sua posizione contro la guerra, è autore di due volumi (Il nazionalismo russo 1900-1914 e Traiettorie della destra politica russa nel Novecento, Federico II University Press) e cura il canale Telegram e la newsletter Russia e altre sciocchezze.

Professore, in che misura l’attuale approccio di Trump vs Putin richiama o si discosta dalle strategie di presidenti americani come Truman, Kennedy o Reagan?

 “In realtà Donald Trump conduce la propria politica estera in questo suo secondo mandato un po’ come se il mondo fosse The Apprentice, il popolare reality show incentrato sulla sua figura di magnate: gli improvvisi cambi di ritmo, l’utilizzo in modo aperto di figure non provenienti dal cursus honorem della diplomazia o della politica interna ma dal business come inviati speciali, l’utilizzo dei social, son differenze di gran peso rispetto alle strategie dei presidenti americani. Sarebbe interessante capire in questo mandato a quali think-tank e consiglieri presta attenzione Trump, perché nel suo primo mandato presidenziale vi erano figure di spicco – penso a Fiona Hill – coinvolte nelle scelte di politica estera, ma presto o tardi allontanate dalla Casa Bianca”.

Esistono precedenti in cui un presidente USA ha fissato un ultimatum temporale così breve a Mosca?

“Partendo dal presupposto che oggi ci troviamo in una situazione molto diversa dal confronto/scontro ideologico ed economico della Guerra Fredda, probabilmente se proprio si vuole trovare un precedente forse è nella crisi dei missili dell’ottobre 1962, quando il dislocamento di missili sovietici a Cuba vide una durissima contrapposizione tra Mosca e Washington. Ma anche in quel caso non furono ultimatum e minacce a risolvere la questione ma negoziati non-stop tra le parti, in quel momento nacque la famosa ‘linea rossa’”.

Nella storia della Guerra Fredda, ci sono stati casi in cui gli Stati Uniti hanno preso in considerazione concessioni territoriali per ottenere la pace?

“Gli Stati Uniti, più che sulle concessioni territoriali, sono stati in prima fila nella risoluzione – quanto soddisfacente o mediocre è un altro discorso – dei conflitti tramite la nascita di nuovi stati, penso al Kosovo. In questo caso il reale problema è l’equilibrio europeo delle frontiere: i cambiamenti avvenuti nel Vecchio Continente si sono avuti seguendo i confini amministrativi degli stati dissolti (dall’Unione Sovietica alla Cecoslovacchia), anche in modo violento (come in Jugoslavia); in quei casi si trattava di secessioni, ma per risalire ad annessioni di territori, come avviene nel corso della guerra in Ucraina, bisogna andare molto indietro nel tempo, a prima della Seconda guerra mondiale”.

Come venivano interpretati, da parte sovietica, gli ultimatum e i “time frame” stretti imposti dagli USA?

“Da parte sovietica vi è sempre stata una certa prudenza, perché – soprattutto negli anni seguiti alla morte di Stalin – il gruppo dirigente al Cremlino era passato per la guerra, che era stata di sterminio nell’est europeo: l’Unione Sovietica aveva avuto 26 milioni di caduti, gli stessi Krusciov e Brežnev erano stati al fronte, la memoria del conflitto era viva e ben presente. Time frame alla Trump, però, non erano mai stati imposti, salvo forse la crisi dei missili, che si risolse però – è importante ricordare – con il ritiro degli armamenti non solo da Cuba ma anche dalla Turchia”.

Che peso aveva, in passato, la scelta della location del vertice (come l’Alaska oggi) nella costruzione della narrativa diplomatica?

“Generalmente la predilezione per la scelta del luogo andava a paesi terzi, come nel caso del famoso vertice di Reykjavik tra Michail Gorbaciov e Ronald Reagan, avvenuto nella capitale islandese nel 1986. Per quanto riguarda l’oggi, l’Alaska assume un particolare significato perché più volte si è scritto e parlato dell’isolamento internazionale della Russia: ebbene, Vladimir Putin andrà negli Stati Uniti e non correrà nemmeno il rischio di veder eseguito il mandato della Corte penale internazionale perché Washington (come altri paesi, tra cui la Russia stessa e Israele) non ha mai sottoscritto lo Statuto di Roma. Credo sia più questo elemento che il passato dell’Alaska come colonia russa a rendere interessante in chiave simbolica l’incontro”.

Quali sono i rischi storicamente associati a negoziati in cui il tempo diventa una leva politica?

“Chiaramente chi riesce a dare i tempi ha possibilità maggiori di successo, e Putin nemmeno tanto velatamente ha cercato di utilizzare questo fattore; il presidente russo è convinto di poter ottenere quello che vuole prima o poi, facendo affidamento a una strategia in cui le trattative son prove tecniche, abbastanza difficili perché il Cremlino continua a ritenere le proprie condizioni come le uniche in grado di garantire la pace, e al tempo stesso la guerra continua, con costi umani e di risorse enormi, ma l’idea di Mosca è di riuscire comunque a sopraffare, in un modo o nell’altro, l’Ucraina”.

Quanto ha influito, nella storia, la differenza di ideologia tra presidenti democratici e repubblicani nella gestione dei rapporti con Mosca?

“In questi venticinque anni abbiamo assistito a buoni rapporti e momenti di crisi – temporanei o duraturi è un altro discorso – con tutti i presidenti statunitensi, indipendentemente dall’appartenenza partitica: con Bush jr. – forse il presidente più vicino a Putin – vi son stati anche periodi critici, dovuti alle rivoluzioni colorate in Ucraina e Georgia; l’amministrazione Obama esordì con lo slogan del reset, con tanto di pulsante rosso regalato da Hillary Clinton a Sergey Lavrov; e infine andrebbe ricordato come nel primo mandato di Trump vennero sbloccate le consegne di armamenti letali a Kiev. Più che di appartenenze partitiche, dovremmo parlare degli interessi geopolitici e strategici delle due potenze”.

Alla luce della storia, quali conseguenze a lungo termine potrebbe avere un eventuale accordo che includa concessioni territoriali?

“È difficile al momento ipotizzare delle concessioni territoriali: se traspare come anche da parte ucraina di fatto la Crimea si ritenga perduta, mentre sul Donbass la situazione è più complessa, concessioni territoriali potrebbero essere viste come una vittoria di Putin più che di Trump, e resta da capire quanto il presidente americano – così attento alla sua immagine di “vincente” – sia disponibile ad accettarlo”. 

Cosa insegna la storia sulla durata e stabilità delle tregue ottenute in situazioni di forte squilibrio militare?

“Più che la storia, il problema è rappresentato dagli scolari: anche in caso di raggiungimento di una tregua o di un congelamento del conflitto (ad oggi poco probabili come prospettive), l’idea di aver un governo “amico” a Kiev e di poter annettere le regioni dell’Ucraina sud-orientale resterà; la reale questione, oggi, è come riuscire a risolvere la crisi, visto che né le sanzioni né le pressioni sembrano aver fermato Putin, e la possibilità di una guerra tra NATO e Russia implicherebbe conseguenze imprevedibili e tragiche per l’Europa”.

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