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Riconoscete pure la Palestina. Intanto Israele se l’è già presa tutta. Insomma: due popoli, zero Stati

Macron e Starmer annunciano il riconoscimento dello Stato di Palestina, ma sul terreno non esiste più nulla da riconoscere: 700.000 coloni, 60% della Cisgiordania sotto controllo israeliano, Gaza rasa al suolo. Un editoriale sull’ipocrisia dell’Europa che applaude una bandiera mentre ignora l’occupazione

Riconoscete pure la Palestina. Intanto Israele se l’è già presa tutta. Insomma: due popoli, zero Stati

Riconoscete pure la Palestina. Intanto Israele se l’è già presa tutta. Insomma: due popoli, zero Stati

Il 24 luglio 2025 Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia riconoscerà ufficialmente lo Stato di Palestina. Cinque giorni dopo, il 29 luglio, il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che anche il Regno Unito seguirà la stessa strada, salvo che Israele, entro settembre, non avvii un cessate il fuoco a Gaza, interrompa gli insediamenti in Cisgiordania e si impegni verso un processo di pace credibile. Le dichiarazioni di Francia e Regno Unito sono state accompagnate da parole solenni, appelli al diritto internazionale, promesse di “svolte storiche” e di “riconoscimento morale”. Eppure, al netto della retorica, la realtà si incarica di smentire ogni proiezione diplomatica. Perché il riconoscimento di uno Stato presuppone che quello Stato esista, o possa esistere. E il cosiddetto “Stato di Palestina”, oggi, non esiste.

Non esiste perché non ha confini né contiguità territoriale.

Non esiste perché non ha un controllo unitario, non esercita sovranità né a Gaza, né in Cisgiordania.

Non esiste perché è stato svuotato, nel corso degli ultimi trent’anni, centimetro dopo centimetro, da un’occupazione militare che si è fatta muraglia, insediamento, checkpoint, zona C, sorvolo militare e controllo dei registri demografici.

Non esiste perché esiste, nel frattempo, una forza dominante che ne ha impedito deliberatamente la nascita.

Oggi, oltre 700.000 coloni israeliani vivono all’interno di territori palestinesi occupati: circa 500.000 nella Cisgiordania, esclusa Gerusalemme Est, e oltre 220.000 nella parte est della Città Santa, che Israele ha unilateralmente annesso e che considera parte indivisibile del proprio Stato. Tutti questi insediamenti, secondo il diritto internazionale e le risoluzioni ONU, sono illegali.

Ma non è solo una questione di cifre demografiche. È anche una questione di terra. Gli insediamenti israeliani, insieme alle zone di sicurezza, ai blocchi stradali, alle aree militari e ai corridoi di collegamento esclusivi, occupano oggi circa il 45% della Cisgiordania. Il solo territorio assegnato ufficialmente alla “giurisdizione” degli enti insediativi israeliani ammonta a oltre 520 chilometri quadrati — pari a più di 520 milioni di metri quadri — ma il controllo di fatto da parte di Israele, tramite la cosiddetta “Area C”, si estende su 3.440 chilometri quadrati, ovvero oltre il 60% dell’intera Cisgiordania. Sono dati che nessuna conferenza diplomatica può cancellare. Sono numeri che parlano di un progetto pianificato, incrementale, irreversibile.

La Cisgiordania non è più una terra contesa. È una terra occupata, colonizzata, smembrata, in cui l’autorità palestinese non ha più né il potere né la possibilità materiale di istituire uno Stato contiguo, indipendente e sovrano.

Nel frattempo, a Gaza, la situazione è ancora più tragica. La Striscia, un lembo di terra di appena 365 chilometri quadrati, ospita oltre 2 milioni di persone in condizioni disumane. L’offensiva israeliana iniziata dopo il 7 ottobre 2023 ha provocato, secondo stime delle Nazioni Unite più di 60.000 morti (secondo altre fonti più di 100 mila), la distruzione di oltre 70% delle abitazioni, il collasso del sistema sanitario e la comparsa di focolai di carestia e epidemie.

Gaza è ridotta a un cumulo di rovine, dove le uniche autorità riconosciute sono Hamas — considerata terrorista da Israele, UE e USA — e un mosaico di ong internazionali che distribuiscono cibo e acqua sotto il fuoco incrociato. Parlare, in queste condizioni, di “Stato palestinese” è più vicino a una formula liturgica che a un progetto concreto.

Eppure Macron e Starmer hanno deciso di muoversi. Perché proprio ora? Perché dopo anni di immobilismo, Londra e Parigi si lanciano in un riconoscimento che sembra più una dichiarazione d’intenti che una svolta reale? La risposta è tanto politica quanto morale. Il riconoscimento dello Stato di Palestina serve oggi a salvare la narrativa, non la soluzione. Serve a mostrare, agli occhi dell’opinione pubblica interna, una presa di posizione sulla crisi di Gaza, ma senza intaccare i rapporti strategici con Israele. Serve a restituire all’Europa un ruolo geopolitico dopo anni di sudditanza alla politica estera americana. Serve a conservare la finzione della “due-State solution”, anche quando tutti, nel profondo, sanno che è morta e sepolta.

Perché dire la verità è scomodo: tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo oggi esiste un solo Stato, quello israeliano. È uno Stato che controlla ogni accesso, ogni dogana, ogni spazio aereo, ogni censimento, ogni punto d’acqua. È uno Stato che decide chi può costruire, chi può muoversi, chi può sopravvivere. I palestinesi vivono sotto diverse forme di apartheid amministrativo, giuridico e militare. I residenti di Gerusalemme Est hanno uno status provvisorio. Quelli della Cisgiordania vivono sotto legge marziale e giurisdizione militare. Quelli di Gaza sono chiusi in un’enclave senza porti, senza aeroporto, senza libertà di circolazione. Questa è la realtà. Il resto sono comunicati stampa.

E così, mentre a settembre si celebrerà a New York il “riconoscimento” dello Stato di Palestina, nessuno avrà il coraggio di dire che quello Stato non ha porti, né confini, né esercito, né elezioni libere, né accesso ai territori che nominalmente gli appartengono. È uno Stato riconosciuto e insieme occupato. Uno Stato virtuale, che esiste sulle mappe diplomatiche ma non su quelle catastali. E non è questione di essere contro Israele, o a favore della Palestina. È questione di coerenza. Un riconoscimento che non si accompagna a sanzioni verso chi impedisce la nascita dello Stato riconosciuto è un esercizio ipocrita. È come premiare un’idea mentre si assiste, in silenzio, alla sua demolizione.

Oggi Macron e Starmer chiedono ad alta voce la creazione di due Stati. Ma non dicono nulla sulle leggi che legalizzano gli avamposti israeliani illegali, sulle nuove costruzioni a Efrat, Ma'ale Adumim, Ariel, che avanzano giorno dopo giorno sotto protezione armata. Non dicono nulla sulla legge israeliana del 2023 che ha annullato lo “sgombero” di quattro insediamenti precedentemente evacuati. Non dicono nulla sulla presenza, secondo fonti ONU, di oltre 3 milioni di metri quadri requisiti ai palestinesi dal 2020 a oggi, spesso con la formula della “terra statale” o del “necessario per la sicurezza”. Non dicono nulla sulla costruzione del muro, lungo 708 chilometri, che taglia uliveti, villaggi e strade e che la Corte Internazionale di Giustizia ha già dichiarato illegale nel 2004.

Il riconoscimento dello Stato di Palestina, dunque, rischia di essere l’ennesima illusione europea. Un modo per darsi un tono, per mettere una bandierina diplomatica, per non restare fuori dal gioco. Ma è un riconoscimento che non cambia nulla sul campo. Non ferma l’avanzata dei coloni, non rimuove i checkpoint, non restituisce le terre. È un atto che vuole salvare l’onore dell’Europa, non la vita dei palestinesi.

Eppure, sarebbe proprio il momento di dire la verità. Di ammettere che la formula “due popoli, due Stati” è morta. Che non esiste più lo spazio, né la volontà politica, né l’equilibrio militare per renderla possibile. Che la vera alternativa, se si vuole davvero la pace, è uno Stato unico con eguali diritti per tutti, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi. Ma questa parola — uguaglianza — è la più impronunciabile di tutte. Più difficile da accettare di una guerra infinita.

E così ci si rifugia nei simboli. Si riconosce uno Stato per non riconoscere il proprio fallimento. Si salva la liturgia per non guardare la cartografia. Si premia una bandiera mentre sotto quella bandiera nessuno può vivere libero.

Settembre si avvicina. L’Assemblea dell’ONU applaudirà. Il mondo si commuoverà. E il giorno dopo, nulla sarà cambiato.

maappa

Ecco una mappa aggiornata (2023) elaborata da Peace Now, che mostra con precisione gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, inclusi gli outpost, le infrastrutture e le aree sottoposte allo "stato terra" israeliano שלום עכשיו+5שלום עכשיו+5שלום עכשיו+5.

Interpretazione della mappa

La cartina evidenzia in dettaglio:

  • I grandi blocchi di insediamenti (come quelli vicini a Ma'ale Adumim, Ariel, Gush Etzion), densamente abitati.

  • I piccoli outpost illegali, molte volta collegati agli insediamenti ufficiali.

  • Le zone sottoposte a infrastrutture esclusive e controllo militare (strade riservate, blocchi, checkpoint).

Dati chiave da conoscere

  • In Cisgiordania, esclusa Gerusalemme Est, vivono circa 500.000 coloni, integrati in oltre 132 insediamenti e più di 140 outpost illegali. A Gerusalemme Est vive un’ulteriore popolazione di circa 220.000 coloniWikipedia.

  • La superficie ufficialmente assegnata agli insediamenti ammonta a circa 520 km² (≃ 520 milioni di m²), ma il controllo de facto israeliano copre oltre il 60% della Cisgiordania, in gran parte tramite l’Area C (≈ 3.440 km² su circa 5.640 km² totali) WikipediaWikipedia.

  • Alcune analisi (come quella del Dipartimento di Stato USA) stimano che le zone effettivamente bloccate allo sviluppo palestinese – tra insediamenti, outpost e zone di sicurezza – occupano quasi il 60% del territorioThe New Yorker.

Perché conta questa visualizzazione

La mappa non è un ornamento grafico: è la prova visiva di un territorio smembrato. Le aree palestinesi sono frammentate in centinaia di enclavi, rese isolate tra loro da muri, strade riservate e insediamenti interconnessi. Gli spazi riservati ai coloni – rossi o marroni sulla mappa – formano un sistema continuo, mentre le aree palestinesi sono marginalizzate e disperse.

Questa rappresentazione conferma che la soluzione dei “due Stati” non è una sfida diplomatica: è prima di tutto una questione geografica e materiale. La Cisgiordania non è più contigua; Gerusalemme Est è de facto annessa; Gaza è isolata. Anche se l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dovesse riconoscere formalmente lo Stato di Palestina questo autunno, la sua cartografia reale – quella della mappa catastale – non cambierebbe affatto.

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