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18 Luglio 2025 - 15:51
Latte crudo, addio? Da Lanzo al Canavese l’urlo delle montagne contro le nuove regole che uccidono i formaggi
C’è un profumo che chiunque sia salito almeno una volta in una malga di montagna non può dimenticare: è il profumo intenso del latte appena munto, quello che scalda le mani, che sa di erba, di fieno, di silenzi antichi e pascoli liberi. È il profumo della vita, della fatica e dell’identità. È il profumo del latte crudo, che oggi rischia di sparire, cancellato da una norma ministeriale che, con il pretesto della sicurezza, minaccia di spezzare il filo che lega il Piemonte alle sue radici più profonde.
Le nuove linee guida del Ministero della Salute, rese note l’8 luglio 2025, hanno come obiettivo dichiarato il controllo del rischio microbiologico legato alla presenza dei ceppi di Escherichia coli produttori di tossine Shiga (STEC) nella filiera lattiero-casearia. Secondo il Ministero, queste tossine rappresentano un potenziale rischio per la salute pubblica, specialmente nei bambini e negli anziani. Ma le misure introdotte – pur animate da intenzioni precauzionali – rischiano di essere sproporzionate, soprattutto se applicate in modo indiscriminato a tutti i produttori, senza tener conto delle specificità della filiera artigianale a latte crudo.
Il documento ministeriale prevede infatti una serie di controlli rigorosi e frequenti direttamente nelle aziende agricole e nei caseifici: analisi microbiologiche complesse, tracciabilità estesa, piani di campionamento stringenti, e una responsabilità totale in capo ai produttori per eventuali non conformità.
La conseguenza? Una pressione economica e burocratica insostenibile per le piccole aziende di montagna, molte delle quali non hanno né le strutture tecniche né le risorse finanziarie per farvi fronte. Il rischio concreto, se queste regole verranno applicate così come sono, è che centinaia di aziende siano costrette a interrompere la produzione o a pastorizzare il latte, snaturando del tutto la loro identità.
A denunciare questo pericolo è Gabriele Carenini, presidente regionale della Cia – Agricoltori Italiani del Piemonte: «La sicurezza alimentare è un valore assoluto, ma le modalità operative indicate dal Ministero sono di difficile, se non impossibile, applicazione per le realtà locali, soprattutto montane. Serve buon senso, confronto, equilibrio».
Perché il latte crudo non è solo latte: è patrimonio culturale, biodiversità vivente, economia circolare, resistenza contadina.
È un Piemonte profondo e autentico, quello che rischia di essere travolto. Quello delle Valli di Lanzo, dell’Alta Langa, della Valle Maira, dell’Ossola, del Canavese, delle terre alte dove si producono gioielli che il mondo ci invidia: il Castelmagno, la Toma di Lanzo, la Robiola di Roccaverano, il Bettelmatt, il Blu del Moncenisio, il Murazzano, la Raschera, lo Stracchino di Elva. Prodotti unici, fatti da mani esperte, senza filiere industriali, senza scorciatoie. Prodotti che parlano il linguaggio del pascolo, del silenzio, della nebbia che sale la mattina e della legna accesa nelle stalle.
La preoccupazione è trasversale. Fabio Carosso e Marco Protopapa, consiglieri regionali della Lega, parlano apertamente di «un boomerang per il comparto caseario del Piemonte», e chiedono alla Giunta di intervenire. Lo stesso fanno i consiglieri del Partito Democratico, Calderoni, Ravetti e Isnardi, che denunciano: «La filiera del latte crudo è a rischio estinzione. Se muore lei, muore anche un pezzo d’Italia». E nel frattempo presentano un ordine del giorno per impegnare la Regione a far sentire la propria voce.
Gabriele Carenini di CIA
Il punto non è ignorare i rischi sanitari – nessuno lo fa – ma chiedere che si ragioni in termini proporzionati e realistici, senza trattare allo stesso modo una multinazionale e un piccolo casaro d’alpeggio. Perché il latte crudo non è un prodotto qualsiasi: è una scelta di campo, è un’idea di mondo. E chi lo produce, lo fa con l’orgoglio di chi sa che sta difendendo un sapere antico, fragile e prezioso.
Ogni forma di formaggio a latte crudo è una piccola opera d’arte. Dietro c’è Martina, che ha lasciato il lavoro in città per salire con le sue capre a 1800 metri e vivere seguendo le stagioni. C’è Gianni, casaro da tre generazioni, che capisce il latte dal colore e dalla consistenza, senza bisogno di strumenti. C’è Beatrice, che ogni mattina sveglia le vacche prima dell’alba e accende il fuoco con la stessa calma con cui il nonno raccontava le storie della guerra. C’è Giorgio, che porta ogni settimana le sue forme in valle, in cambio di farina e caffè, come si faceva una volta. C’è la montagna, che senza di loro diventerebbe silenzio e abbandono.
Le nuove linee guida, così come sono, non distinguono, non ascoltano, non proteggono. Impongono. E rischiano di tagliare le gambe a chi, invece, dovrebbe essere sostenuto.
Oggi è il momento della scelta: lasciare che il latte crudo diventi un ricordo da museo, o battersi per mantenerlo vivo. Proteggere i consumatori sì, ma anche proteggere i territori, i giovani agricoltori, le micro-economie, le storie familiari, i gusti veri, i profumi che non si trovano nei supermercati. Perché il latte crudo è il nostro profumo, il nostro gusto, la nostra storia.
Non possiamo permetterci di perderlo.
Ci voleva il Ministero della Salute per dirci che il latte crudo fa paura. Che quei formaggi meravigliosi prodotti nelle stalle delle valli alpine sono un pericolo per la salute pubblica. Che la Toma di Lanzo, il Bettelmatt, la Robiola canavesana, frutto di mani sporche di fieno e cuori pieni di montagna, vanno controllati, analizzati, sterilizzati, schedati. Meglio ancora se fatti sparire.
Un Paese che arriva a criminalizzare il latte vivo, quello munto la mattina e trasformato nel pomeriggio da un casaro che conosce le sue bestie una per una, è un Paese che ha smarrito il senso del limite, della proporzione e soprattutto della decenza.
Ci dicono che si fa tutto in nome della sicurezza alimentare. Ma la sicurezza, in Italia, è sempre un’arma a doppio taglio: serve a giustificare ogni imposizione, ogni irrigidimento, ogni norma scritta in un ufficio senza finestre da chi non ha mai camminato tra due file di mucche né sentito l’odore di un alpeggio.
E così si arriva all’assurdo: costringere i piccoli produttori delle nostre montagne a spendere migliaia di euro in analisi microbiologiche, a compilare faldoni di autocertificazioni, a seguire protocolli pensati per le multinazionali del latte pastorizzato, con l’unico risultato concreto di farli chiudere.
Sì, chiudere. Perché è questo che accadrà se la norma verrà applicata così com’è. I formaggi a latte crudo spariranno dagli scaffali. E con loro spariranno malghe, famiglie, pascoli vivi, fienili, animali che ancora mangiano erba vera, comunità intere. Un genocidio alimentare compiuto in nome di una presunta tutela della salute.
Nel frattempo, ovviamente, nessuno si sogna di toccare le schifezze confezionate e ultra-processate che campeggiano nei banchi frigo dei supermercati. Quelle, sì, certificate. Con dentro tutto e il contrario di tutto. Quelle vanno bene. Quelle sono “sicure”.
Ci vogliono un popolo senza sapori, senza odori, senza memoria. Un popolo che non mastica più, che si nutre di prodotti standardizzati, tutti uguali, senza più sapere da dove arriva il latte, com’è fatto un caglio, cosa significa stagionare una toma in una grotta di pietra.
Ma forse è proprio questo l’obiettivo: annientare l’identità. Perché il latte crudo è identità. È differenza. È resistenza culturale. È l’idea che un altro modo di produrre è possibile. Ed è anche, diciamolo chiaramente, un fastidio per il sistema agroindustriale, che preferisce il latte omogeneizzato, sterilizzato, anonimo, che viaggia in cisterne e si trasforma in formaggio in fabbriche senza odore.
E allora ecco la stangata. Ecco la norma. Ecco il colpo alla nuca. Altro che tutela del consumatore: qui si tutela solo la comodità del mercato, la logica del “tutto uguale per tutti”, la burocrazia che diventa censura.
Noi diciamo no. Diciamo che se un Paese non sa più fidarsi di chi fa formaggio da generazioni, allora è un Paese malato di diffidenza e di ignoranza. Diciamo che il latte crudo non è un pericolo, è un diritto. Diciamo che se chiudono le stalle, muore un pezzo d’Italia vera, quella che ancora resiste alla plastica, al nulla, al profitto cieco.
E se questo vuol dire schierarsi, lo facciamo volentieri. Senza se e senza ma.
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