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Noi da qui non ce ne andiamo. Neanche con le ruspe

Una madre cardiopatica in roulotte, bambini tra le lamiere, silenzi istituzionali e slogan social. Così il Comune "inclusivo" cancella le vite dei poveri veri

"Dietro le ruspe: il grido silenzioso del campo rom ai margini di Settimo Torinese"

Fehima

Alla ricerca della verità perduta. Così potremmo intitolarla, questa storia. Perché per trovarla bisogna scendere giù, fino al margine più remoto di Settimo Torinese, dove l'asfalto lascia il posto alla terra battuta e i cartelli spariscono.

“In via Moglia, al fondo al fondo”, ci dicono alcuni residenti incontrati per strada. E quel “fondo al fondo” suona come una formula segreta, un modo per dire: lì non ci va nessuno, meglio lasciar perdere.

“Un campo nomadi? Sì, ho sentito dire… ma non l’ho mai visto”. La frase si ripete, tra esitazioni e spallucce. Perché questo campo, più che un luogo, è una zona d’ombra. Invisibile agli occhi della città, incastrato tra i campi di grano appena falciati e le distese di granoturco che cedono il passo a impianti fotovoltaici. Una periferia vera, di quelle che non finiscono sui dépliant urbanistici, ma che raccontano molto più di quanto sembri.

Quando arriviamo, ci accoglie Fehima. Occhi lucidi. Pelle bruciata dal sole. Gentile e senza alcun timore dei giornalisti.

Ha 41 anni, uno sguardo duro e un tono che lascia intuire la stanchezza di chi ha passato una vita a giustificarsi. 

il campo rom

le baracche abbattute

una roulotte

Silvia

Silvia

l'anziana

L'anziana madre

“Noi siamo quelli che rubano, quelli che danno fastidio, quelli che costruiscono le case abusive…”.

Una frase fatta, una provocazione... Ci sta!

Intorno a lei, un gruppo di donne e bambine. Sono loro le protagoniste involontarie delle cronache di questi giorni: “abusi edilizi”, “sgomberi”, “demolizioni”. Parole pesanti, che inquadrano la vicenda come una questione di legalità, una guerra "vinta" contro lo scempio urbanistico con le ruspe al lavoro...

Epperò le donne che abbiamo davanti vogliono raccontare tutta un’altra storia: la loro.

“Vogliamo chiarire – dice Fehima –. Non è vero che il Comune ha mandato le ruspe e ha buttato giù tutto. Le case le abbiamo demolite noi, con le nostre mani”. 

E qui il tono cambia. C’è orgoglio, ma anche rabbia.

Tutto è cominciato a gennaio, quando è arrivata la comunicazione: “Avvio del procedimento finalizzato all’emissione di una ordinanza di demolizione”. Una frase fredda, impersonale. Dentro, però, c’erano i loro nomi e di altri: Fehima, Silvia e Alex Hadzovi, Antonio Mirabile, Biagio, Emanuela e Salvatore  Fiaschè, Matteo Manzo, Sabrina Polidoro, Francesca Acconcia, Fernanda De Agostini, Anna Teresa Guarino, Domenico Maietta, Caterina, Gaspare, Nunzio, Santoro e Franca Gandolfo, persino il Demanio dello Stato.

Il provvedimento "non esecutivo" indicava due fabbricati a uso abitativo, un deposito, tre moduli prefabbricati e cinque caravan. Fin qui la forma. Ma la sostanza? 

“Le due case le abbiamo buttate giù noi – ripete Fehima Erano di legno, non in muratura. Lo abbiamo fatto per rispettare la legge italiana. Nessuno ci ha aiutato. La sindaca non l’abbiamo vista. I carabinieri sì, ma solo per controllare. Una di quelle case era di mia madre, malata di cuore”.

La madre oggi vive in una roulotte. Ha 71 anni, i capelli raccolti  e una voce che fatica a uscire.

 “Questa mattina ha pianto davanti agli assistenti sociali – racconta Fehima  Piangeva per quelle case buttate giù, piangeva per la sua vita”. 

Una vita segnata da troppi lutti: il marito morto 5 anni fa e due figli persi, Rambo e Adriano.

La domanda è semplice: dove andranno adesso? Gli assistenti sociali hanno proposto un albergo per un mese. Una toppa, non una soluzione.

“E poi? Poi che cosa facciamo? Sotto un ponte? Se ci danno una casa ce ne andiamo subito. Ma se non ce la danno, restiamo qui. Fino alla morte”.

Qui non ci sono i “sinti piemontesi” che molti immaginano. Sono originari del Montenegro ma molti di loro quella terra l'han vista solo in cartolina. Giungono in Italia una quarantina di anni fa, in fuga dalla crisi e poi dalla guerra. Prima stazionano nel campo di corso Novara, a Torino. Poi, il capostipite decide di comprare un terreno a Settimo. 

“Lo abbiamo pagato 37 mila euro nel 2007 – dice Silvia, 39 anni, sorella di FehimaNon siamo entrati abusivamente, è nostro. Mio padre aveva la partita Iva, lavorava. Non abbiamo mai occupato case, non abbiamo mai chiesto nulla. Non andiamo a rubare. Raccogliamo ferro per rivenderlo. Quelle due casette erano lì da vent’anni. E qui intorno? Guardate. Ci sono ville, piscine… tutto abusivo. La sindaca ha detto che verrà demolito tutto. Vedremo…”.

In via Moglia vivono Fehima con il figlio, Silvia con nove bambini, un fratello con due figli e la madre anziana. Una comunità piccola, che resiste. 

“Chiedi un lavoro e non te lo danno. Chiedi una casa e non te la danno. E poi dicono che i rom rubano…” insista Fehima

L’anziana donna ripete: “Mio marito lavorava. Non era un ladro”.

Fehima ci porta a vedere la roulotte della madre. È piccola, stretta. Dentro, tre persone dormono insieme. C’è un lavandino minuscolo. “Si deve lavare qui. Guardate. Vi sembra normale? Non era meglio lasciarci quelle due baracchine?”.

Intorno, il silenzio della campagna. Un silenzio che sa di abbandono. Perché qui non arrivano piani di inclusione, non arrivano progetti sociali. Solo carte bollate, richieste di demolizioni. Come se bastasse far sparire le baracche per far sparire anche le persone.

Ma le persone restano. Con le loro storie, le loro ferite e la loro dignità.

L’integrazione a colpi di "ruspe finte". E il Comune? Sparito nel nulla

C’è un angolo di Settimo Torinese che l’Amministrazione comunale preferisce non guardare. Anzi, che forse non sa nemmeno dove sia. Via Moglia, “al fondo al fondo”, come dicono i residenti. Lì, tra granoturco, pannelli fotovoltaici e cartelli mancanti, esiste un campo invisibile. Invisibile agli occhi della politica, ma visibilissimo quando si tratta di sfoderare l’arma preferita dei sindaci in cerca di facile consenso: la ruspa, reale o metaforica poco importa.

Perché è questa la cifra della vicenda che ha coinvolto Fehima, Silvia e le altre famiglie che vivono in quell’area: l’assoluta assenza dell’Amministrazione comunale, sostituita da un freddo provvedimento burocratico. Un “avvio del procedimento finalizzato all’emissione di una ordinanza di demolizione”, come se si trattasse di baracche da smontare e non di vite umane da accompagnare.

Eppure, a demolire quelle due casette — prefabbricati in legno costruiti vent’anni fa — non sono stati i mezzi del Comune, né le imprese convenzionate. Sono state le stesse famiglie, con le loro mani. Una madre malata di cuore è finita a dormire in roulotte. Una donna di 71 anni che piange davanti agli assistenti sociali. Bambini che vivono in condizioni di promiscuità indegne di un Paese civile. E nel frattempo, la sindaca dov’è?

Elena Piastra, per l’occasione, pare aver perso l’orientamento. Dimentica che via Moglia è nel suo Comune. Dimentica che quelle famiglie non sono comparse da un giorno all’altro, ma vivono lì da decenni. Dimentica persino la politica, quella con la P maiuscola, fatta di ascolto, presenza e dialogo. Eppure è la stessa sindaca che, con puntualità da orologio svizzero, twitta slogan sulla giustizia sociale, partecipa a convegni sul diritto alla casa e pubblica foto con assessori compiaciuti davanti a nuove rotatorie urbane.

Poi quando si tratta di stare accanto ai poveri veri, quelli senza sponsor né tessere, sparisce come una cartella mal archiviata. Nessuna visita, nessun confronto, solo la burocrazia nuda e cruda, che arriva come una sentenza e scarica ogni responsabilità.

Il risultato? Famiglie demolite insieme alle case, invisibili come lo erano quarant’anni fa, quando la sinistra si inventava i “campi nomadi attrezzati” per preservare la cultura rom. Che poi era solo un modo elegante per dire: mettiamoli ai margini, ma con l’acqua corrente. Da allora poco è cambiato, anzi: oggi nemmeno la retorica dell’inclusione viene più usata. Si manda direttamente la comunicazione dell’ordinanza e poi si aspetta che la notizia svanisca tra un post sulla sostenibilità e l’altro sul festival dell’innovazione.

Fa comodo, evidentemente, non vedere. Fa comodo dire che sono “abusivi”, come se l’abusivismo edilizio fosse una devianza esclusiva dei rom e non la regola silenziosa di tante villette e piscine costruite senza permesso. Fa comodo parlare di legalità solo quando i colpevoli sono deboli e facilmente colpibili. Per gli altri, per i veri potenti, c’è sempre una sanatoria o un condono.

E allora eccola la verità, sepolta sotto strati di ipocrisia: il Comune non ha un progetto. Non ce l’ha per l’inclusione, non ce l’ha per l’abitare, non ce l’ha nemmeno per affrontare il disagio sociale senza passare da sgomberi e alloggi provvisori. L’albergo per un mese? Una toppa pietosa, il contentino da dare in pasto all’opinione pubblica: “Abbiamo fatto qualcosa”. Ma il vero qualcosa, cioè trovare una soluzione degna e stabile, non è stato nemmeno tentato.

Intanto, nel campo di via Moglia la vita continua. Bambini che crescono tra le lamiere, madri che combattono per il rispetto, famiglie che resistono a un abbandono istituzionale che ha il volto del disinteresse. Nessuna progettualità, nessuna presenza, nessun ascolto. Solo carte, silenzi e ruspe. E se questo è il modello di inclusione che Settimo Torinese vuole offrire, allora forse la verità non è solo perduta. È stata demolita, pezzo dopo pezzo. 

La verità è che c'è anche da ridere "seriamente" considerando che  appena due mesi fa la sindaca sui social, con un post, annunciava che la città era finalista (insieme a Parigi, Utrecht, Braga, Cracovia, Bilbao, Francavilla Fontana, Gualdo Tadino, Sogliano al Rubicone) del premio "Capitali europee dell'inclusione" per le sue politiche sulla disabilità, sull’accoglienza, sulla parità di genere, per il contrasto alle discriminazioni, in particolare verso la comunità LGBTQI+. Insomma una città esempio. Una città che emoziona.  Peccato che tutto questo sia solo sulla carta. O meglio: solo su Facebook. O ancora meglio: solo nella sua testa. 

Zingari, nomadi, rom. O, più semplicemente, emigranti

C’è chi li chiama rom, chi nomadi, chi zingari. Ma la verità è che molti di loro sono, o meglio erano, semplicemente degli emigranti. Uomini e donne in fuga, non da guerre o persecuzioni religiose, ma dalla fame. Inseguivano un sogno, come tanti altri italiani prima di loro. Alcuni fuggivano dalla miseria del socialismo jugoslavo che ormai cadeva a pezzi. Altri cercavano solo un’occasione: un lavoro, una scuola, un futuro migliore per i figli.

Arrivarono negli anni Settanta e Ottanta, con valigie leggere e speranze pesanti. Mentre in Italia impazzava la febbre del mattone e i sindaci si fotografavano orgogliosi davanti ai plastici dei nuovi piani regolatori, loro varcavano il confine confidando in quella leggenda che si chiamava Italia dei miracoli. Ma trovarono un Paese che pianificava barriere più che ponti, che costruiva recinti invece di percorsi.

Fu così che nacque una delle più grandi ipocrisie urbanistiche della nostra storia recente: i cosiddetti “campi nomadi attrezzati”. Le amministrazioni locali li presentarono come un gesto di tutela culturale. Un’attenzione alle “tradizioni”. Tradotto: “Costruiamo ghetti, ma con il nobile intento di rispettare le usanze”. Peccato che vivere tra container arrugginiti, fango e topi non fosse affatto una tradizione. Semmai una condanna.

Eppure si andò avanti. Si battezzarono le baracche con nomi fantasiosi: “aree di sosta”, “aree attrezzate”, “villaggi solidali”. Tutti ossimori che puzzano di ipocrisia e cemento malmesso. Alcuni comuni arrivarono a prevedere nei piani regolatori intere zone dedicate all’“urbanistica etnica”, come se ghettizzare fosse un nobile gesto di pianificazione.

Alla prima ondata economica seguì quella più drammatica degli anni Novanta, quando i Balcani bruciavano sotto le bombe e le famiglie fuggivano dalle guerre. Anche in quel caso, l’Italia si raccontò generosa e accogliente. A patto, però, che quei rifugiati restassero in periferia. Lontano dagli occhi, lontano dai centri storici, lontano da ogni possibilità di integrazione.

Si cresce così, tra recinzioni, pregiudizi e vigilanza armata. Con uno Stato che, a seconda del governo, passava dal buonismo paternalista alla ruspa da comizio. Ma il vero capolavoro, ancora una volta, fu linguistico: si parlava di “campi nomadi”, ma il nomadismo era forzato. Non era libertà di movimento, ma costrizione a rimanere nel recinto. Il massimo della beffa: ghettizzati a vita nel nome della mobilità.

Intanto la politica ha fatto il resto. Campagne elettorali a colpi di “sgomberi” e “emergenze sicurezza”. Perché un campo nomadi fa sempre più scena in prima serata di un vero progetto di edilizia popolare. Fa più rumore una baracca incendiata che un’integrazione riuscita. E costa meno.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Bambini arrivati negli anni Ottanta oggi sono adulti, spesso nati in Italia, italiani di fatto ma non di diritto. Hanno visto passare decenni di governi, prefetti, assessori e commissioni. Tutti bravissimi a fare finta di fare, ma incapaci di immaginare qualcosa che non fosse un recinto. In compenso, l'Italia ha saputo creare quartieri fantasma, focolai di microcriminalità e un abisso sociale e culturale che nessuno ha mai voluto colmare davvero.

E guai a parlare di integrazione. Perché l’integrazione costa. In termini di soldi, di tempo, e soprattutto di consenso elettorale. Meglio dire “tolleranza zero”, “emergenza rom”, “sgomberi immediati”. Meglio un nemico da agitare nei talk show che una soluzione da progettare con le comunità.

Quarant’anni dopo, la lezione è ancora scritta lì, nel fango e nella ruggine: l’Italia non ha saputo accogliere, non ha voluto capire. Ha preferito la scorciatoia del recinto al sentiero dell’inclusione. Ha scelto il pregiudizio al posto della politica.

E allora sì, a quel paese il Pd, la Lega, i Fratelli d’Italia. Tutti, indistintamente. Perché nessuno, davvero nessuno, può dire di avere le mani pulite.

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