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Sanità pubblica o bancomat privato? Ora basta giocare su due tavoli

In Piemonte i medici degli ospedali pubblici avranno regole uniformi per le visite a pagamento: la legge regionale mira a garantire equità e trasparenza nell'attività intramuraria, mettendo fine al doppio binario tra pubblico e privato e rendendo chiari i confini tra scelta e obbligo per i cittadini

L’ospedale alla “francese” e le “cazzate” di Icardi

L'ex assessore regionale alla sanità del Pirmonte Luigi Genesio Icardi

In Piemonte cambia il modo in cui i medici degli ospedali pubblici possono effettuare visite ed esami a pagamento. Il Consiglio regionale ha approvato una nuova legge che punta a fare chiarezza, una volta per tutte, sull’attività libero-professionale intramuraria – quell’attività che consente ai medici pubblici di visitare privatamente i pazienti all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, utilizzando ambulatori, attrezzature, infermieri e stanze dell’ospedale, ma fuori dall’orario istituzionale.

È una possibilità prevista dalla legge nazionale fin dagli anni ’90. Ma negli anni si è trasformata, almeno in certi casi, in una zona grigia dove le regole erano poco chiare, i tempi d’attesa pubblici si allungavano, e la sensazione diffusa tra i cittadini era che chi aveva i soldi poteva saltare la fila – e magari farsi visitare dal primario la settimana successiva – mentre chi non poteva permetterselo rimaneva incastrato nel limbo della lista d’attesa. A Ivrea come a Cuneo, a Torino come a Domodossola.

La nuova legge regionale approvata il 15 luglio dal Consiglio – a prima firma Luigi Icardi, ex assessore leghista alla sanità – ha un obiettivo dichiarato: mettere ordine. E soprattutto farlo in modo uniforme, cioè uguale in tutta la Regione. Fino ad oggi, infatti, ogni Asl e ogni ospedale regolava l’intramoenia a modo suo. O meglio, secondo regolamenti aziendali che, in teoria, dovevano rispettare i principi della legge nazionale, ma che nella pratica producevano differenze enormi. In alcuni ospedali si facevano poche visite a pagamento, in altri moltissime. In alcune Asl i controlli erano rigorosi, in altre l’accesso era lasciato alla discrezionalità dei singoli. Un far west, travestito da libera scelta.

Il cittadino non ci capiva più nulla. E il sospetto – spesso fondato – era che l’intramoenia fosse diventata una “scorciatoia di lusso”. La stessa visita che nel servizio pubblico non si riusciva a ottenere prima di tre mesi, in modalità intramoenia diventava disponibile dopo due giorni, magari con lo stesso medico. Un doppio binario, con due velocità, due diritti e due sanità.

“È un sistema che genera iniquità e frustrazione”, ha detto più volte Luigi Icardi. “Chi ha più soldi riesce a ottenere prima le cure. Non possiamo più permettere che succeda in un servizio sanitario che vogliamo resti pubblico e universale”.

Ecco allora le novità. La Regione adotterà un regolamento tipo, entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge. Quel regolamento stabilirà le regole per tutti. Ogni Asl e ogni azienda ospedaliera dovrà uniformarsi, aggiornare il proprio regolamento interno, e farlo entro altri 30 giorni. Stop ai “fai da te”. Stop agli ospedali con regole speciali. Si tornerà a un principio semplice: ciò che vale a Verbania deve valere anche a Savigliano o a Moncalieri. E magari, prima o poi, anche a Ivrea.

Ma la legge non si limita a dare scadenze. Introduce anche dei paletti precisi: per esempio, la libera professione non potrà mai superare l’attività istituzionale. Un medico potrà fare visite intramoenia solo se sta garantendo in pieno anche le prestazioni del servizio sanitario pubblico. Se no, niente intramoenia. Nessun doppio binario. Nessuna corsia preferenziale mascherata da “libera scelta”.

Inoltre, i cittadini dovranno avere tempi d’attesa “normali” anche nel pubblico: se un reparto sfora i tempi previsti per le visite gratuite, i medici di quel reparto non potranno proporsi in intramoenia. “Non è possibile che uno specialista non abbia posto per tre mesi per la visita pubblica, ma lo si trovi disponibile domani mattina se lo si paga”, si è stigmatizzato in aula. Parole condivise da chiunque abbia provato, almeno una volta, a prenotare una visita in una Asl piemontese.

C’è poi un meccanismo importante: la trasparenza. Ogni azienda sanitaria dovrà inviare ogni anno una relazione dettagliata alla Regione. Ci sarà scritto quante visite intramoenia sono state fatte, da chi, per che importo, e con che rapporto rispetto alle visite del servizio pubblico. Tutti questi dati dovranno essere pubblici, e messi nero su bianco. Non sarà più possibile far finta di niente o nascondere numeri e nomi. Non si potrà più dire “non sapevamo”. Si saprà tutto. E lo sapranno anche i cittadini.

E per evitare che qualcuno faccia il furbo, sono previste anche sanzioni pesanti. Se un’Asl non approva il proprio regolamento nei tempi stabiliti, o se non applica le nuove regole, il direttore generale rischia una decurtazione fino al 70% della retribuzione di risultato. E, nei casi peggiori, la Regione potrà nominare un commissario ad acta che prenderà in mano la situazione. Un segnale forte, che mette fine alla stagione delle deroghe implicite e delle tolleranze silenziose.

Per i medici, sarà una svolta importante. Dovranno fare i conti con nuove regole, più controlli e più vincoli. Per molti non cambierà nulla, perché già lavorano nel rispetto delle regole. Ma per chi ha approfittato delle zone d’ombra, sarà più difficile giocare su due tavoli. Non sarà più possibile, ad esempio, prenotare visite private in orari “incerti”, o utilizzare le strutture pubbliche per fare attività privata senza una rendicontazione trasparente. Tutto dovrà essere tracciato, verificabile, approvato. E rendicontato. Una piccola rivoluzione culturale.

Per i cittadini, almeno sulla carta, questa legge dovrebbe rendere più chiaro il confine tra pubblico e privato. Si potrà ancora scegliere un medico a pagamento – è un diritto previsto dalla legge – ma non si dovrà più avere l’impressione di essere penalizzati se non si può pagare. Una cosa è scegliere. Un’altra è essere costretti.

“L’intramoenia non può diventare il salvagente di un servizio sanitario che non funziona. Deve essere un’opzione in più, non l’unica strada per farsi curare in tempi decenti”, han detto in tanti. Parole giuste. Ma da sole, non bastano. Servono fatti. E regole.

Ora la palla passa alle aziende sanitarie. Nei prossimi mesi dovranno adeguarsi. Ma soprattutto dovranno dimostrare che questa riforma non è solo una vetrina, ma un passo concreto verso un sistema più equo. Perché il diritto alla salute non può dipendere dal portafoglio. E se l’intramoenia continuerà a esistere – com’è giusto che sia – dovrà farlo nel rispetto di regole chiare, di limiti precisi e, soprattutto, della dignità di chi, ammalato, si affida ogni giorno alla sanità pubblica con la speranza di essere curato, non selezionato.

Ora si abbia il coraggio di fare l’unico passo davvero rivoluzionario.

Facciamo i complimenti al Consiglio regionale del Piemonte. Sì, complimenti. Davvero. La legge appena approvata per uniformare l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria è un buon segnale. È un passo nella direzione giusta. Un primo passo. Ma non basta. Perché se si vuole davvero cambiare la sanità pubblica in questo Paese, il punto è un altro. Serve una scelta netta, una svolta di civiltà e di trasparenza: un medico deve scegliere. Pubblico o privato. Non entrambi.

Se vuoi lavorare nel servizio sanitario nazionale, bene: lo fai per tutti i cittadini, lo fai in orari precisi, in ospedale, e lo fai con lo stipendio pubblico. Punto. Le visite private te le scordi. Non puoi trasformare il tuo ambulatorio pubblico in uno sportello bancomat, dove nel pomeriggio entrano solo quelli che possono pagare. E che pagano perché sanno – o sospettano – che poi, quando servirà un ricovero o un intervento, il tuo nome potrà miracolosamente “agevolare” le cose. Questo non è un sistema sanitario. È un sistema malato, più dei malati che dovrebbe curare.

E se invece vuoi guadagnare tanto, perché ti sei fatto un nome, perché sei diventato un luminare – e ben venga, ci mancherebbe – allora fai la tua scelta: ti licenzi dal pubblico e apri il tuo studio privato. Con i tuoi orari, le tue tariffe, le tue cliniche. Libero di farlo. Ma fuori dall’ospedale. Fuori dal servizio sanitario nazionale. E nel frattempo la sanità pubblica, con quello stipendio che tu non ritieni più adeguato, assume un medico giovane. Uno bravo, magari appena specializzato. Uno che ha voglia di curare tutti. Non solo quelli col portafoglio spesso.

In questo modo ci guadagnano tutti: ci guadagna il malato, che non sarà più costretto a pagare per saltare la fila. Ci guadagna la sanità pubblica, che torna ad avere medici in corsia, presenti, motivati. E ci guadagnano i giovani, che oggi fuggono all’estero perché da noi, se non ti chiami nessuno, il contratto è precario e la prospettiva è quella di fare il tappabuchi. Altro che fuga dei cervelli. È la fuga da un sistema che tiene in piedi pochi privilegiati e lascia fuori migliaia di ragazzi formati, preparati, pronti a curare.

E che questa sia l’unica strada possibile lo dimostra una realtà che tutti, pazienti e operatori, conoscono benissimo: gli ospedali italiani nel pomeriggio sono vuoti. Reparti deserti, corridoi silenziosi. I medici non ci sono più. Sono nei loro studi privati, in intramoenia, a fare visite a pagamento. Restano gli infermieri. Restano gli OSS. Restano i pazienti.

Una sanità così non è giusta, non è equa, non è più neanche pubblica. È una finzione, una vetrina sgualcita. E allora bene, benissimo la nuova legge piemontese: mette un po’ d’ordine in un caos che durava da troppo. Ma ora basta compromessi. Ora si abbia il coraggio di tagliare netto. Di dire: o dentro o fuori. O con tutti, o per te stesso. Non si può più giocare su due tavoli. Basta far finta che il pubblico e il privato possano convivere serenamente sotto lo stesso tetto. Perché così facendo, il tetto sta crollando. E sotto ci siamo noi.

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