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Ombre su Torino
13 Luglio 2025 - 22:21
Sono passati quasi 70 anni da allora ma questa storia potrebbe essere ambientata un giorno qualsiasi di uno o due secoli prima.
Siamo a Rivoli, 15 km a ovest di Torino, ed è il 1956. Oggi il corso che sale su verso il castello è dedicato a De Gasperi e, seguendo il dedalo di strade che da esso guardano alla Val di Susa, è possibile notare una distesa di case e palazzi più o meno graziosi, un enorme centro commerciale, distributori di benzina, l’aspetto odierno della statale 25, l’asfalto, le rotonde. La modernità in un territorio mediamente benestante.
Ai tempi, invece, come suggerisce un inflazionatissimo e banale adagio, al di là di quello che si chiamava corso Adua, è tutto campagna e boschi.
E non è solo la geografia del territorio a farci piombare in un altro mondo ma anche l’umanità che la abita. Qui, accanto ai possedimenti di signorotti, industriali e nobili decaduti vari, sembra che il dopoguerra non sia mai iniziato. La povertà, quella vera, è diffusa a macchia d’olio, con tutto il suo carico di disagio e conflitti.
Da quelle parti, per esempio, vive una contadina di 41 anni che si chiama Tersilia Cavallo. La donna, sposata dal 1942 con Pasquale Battista, un operaio delle acciaierie della Fiat, possiede una piccola cascina che gestisce praticamente da sola, della quale affitta il piano di sopra, traendo il grosso dei guadagni dal commercio di maiali che alleva in giardino.
Potrebbe condurre un’esistenza serena ma, complice anche una meningite, che una personale diagnosi fatta dal marito stabilisce come causa dei suoi comportamenti, non sembra avere nessuna intenzione di farlo. Alla donna piace bere, frequentare le osterie della zona e, soprattutto, “fraternizzare” con una serie di individui che incontra nelle sue scorrerie.
Questa sua attività, per altro, è condita anche da un lato solidale. Tersilia, infatti, è habitué della caserma degli alpini di corso Susa, a Rivoli. Certo, la sua passione per i bei ragazzi in divisa non è certo un segreto ma la signora visita quel luogo anche per dare una mano ai tanti senzatetto che conosce e con cui si accompagna ogni giorno. Si fa dare gli avanzi del rancio dei soldati, li impacchetta e poi li distribuisce ai tanti disperati che, da qualche tempo, si ritrovano davanti a un monolocale dove abita un mezzadro suo vicino di casa, un certo Adolfo Libralato.
È con lui che il signor Battista la vede sottobraccio la sera del 9 gennaio 1956. Il marito, sorpreso dalla sfacciataggine dei due, aveva colpito al volto l’uomo con un pugno che era finito a terra sanguinante. L’altro non aveva proferito parola e se ne era tornato alla sua baracca mentre la donna era anch’essa finita a subire le attenzioni manesche dell’operaio.
È da notare, per altro, che la Cavallo, di violenti intorno ne ha più di uno.
Il 6 dicembre 1955, rientrando per il viottolo buio che conduce alla cascina, vede, improvvisamente, sbucare da un arbusto il garzone che da poco aveva assunto. Il quarantaseienne Domenico Vindrola le salta addosso, la getta a terra e le strappa i vestiti da dosso con l’intento di violentarla ma Tersilia, che le cronache dell’epoca descrivono dotata di una forza “da uomo”, riesce a farlo desistere e a farlo scappare via. La coltivatrice finisce in ospedale sei giorni, l’aggressore viene arrestato e licenziato.
Poco lontano vive un’amica di Tersilia che ha 26 anni e si chiama Mammola Navari. Originaria di Pietrasanta di Lucca, è figlia di padre sconosciuto e orfana di madre da quando ha tre anni. Viene cresciuta dalle zie ma, adolescente, scappa di casa e, non si sa come finisce a Rivoli.
Qui, senza soldi e un posto dove andare, si sposa per un bicchiere d’acqua.
Arriva, vagando, al chiosco di “bevande gassose” di Giovanni Vercellino chiedendogli da bere. Non ha i soldi per pagare ma decide di concedere le sue grazie al barista, nonostante questi, con la gamba destra paralizzata e il braccio sinistro anchilosato, non fosse esattamente una figura invitante. La ragazza, tuttavia, disperata, disoccupata e analfabeta, decide poco dopo di sposarlo.
Dalla coppia nascono due figli ma la loro vita coniugale è tutto tranne che felice. Vivono in un angusto monolocale che gli è stato concesso per pietà da un loro amico, lei non lavora e lui si è reinventato straccivendolo. Soldi e gioia poche, insomma, ma non solo. Mammola, che nel frattempo fa collezione di condanne per reati contro il buon costume, in casa comanda e tratta malissimo il consorte, spesso vittima di angherie tra le più varie, percosse e anche minacciato di morte con un coltello.
29 gennaio 1956, ore 15.30.
In regione Perosa, un gruppo di cacciatori è impegnato in una battuta al coniglio selvatico nella riserva dell’industriale Viberti. In un avvallamento del terreno, notano il corpo esanime di una donna, spaventosamente sfigurata in volto da 18 colpi di una roncola abbandonata li vicino insieme a una decina di fascine di rami: è Tersilia Cavallo.
Stabilita l’ora della morte intorno alle 14 e verificato che addosso la vittima ha soldi e un anello d’oro, i carabinieri escludono immediatamente il movente della rapina e si convincono che chi ha compiuto quello scempio lo ha fatto per impeto. Il movente, per quanto incredibile, sarebbero proprio le fascine di legna trovate vicino al cadavere. Probabilmente l’assassinata le stava raccogliendo in compagnia dell’omicida e deve essere scoppiato un diverbio sulla divisione delle stesse che ha portato a un litigio e all’omicidio.
Vengono quindi immediatamente interrogati il marito, Pasquale Battista, e il vecchio garzone, Domenico Vindrola, ma hanno entrambi alibi di ferro e vengono rilasciati. Vengono scandagliate le vite di tutte le persone vicine alla Cavallo, finché, con gli inquirenti brancolanti nel buio, l’8 febbraio si presenta a testimoniare spontaneamente Mammola Navari.
L’amica della morta riferisce di averla incontrata proprio il giorno della tragedia e di essere rimasta a parlare con lei fino a che non l’aveva salutata e l’aveva vista sparire nel bosco. Rimasta sul posto per un po’, la donna è sicura che, verso le 14, si è vista passare davanti un uomo con delle fascine di legno sulla spalla, proveniente proprio da dove era andata Tersilia: è Adolfo Libralato. Il bracciante viene immediatamente arrestato e portato alle Nuove dove, il giorno dopo, viene messo a confronto con l’accusatrice.
Dopo pochi minuti di faccia a faccia, tuttavia, la giovane ritratta e fa deflagrare una vera e propria bomba. Aveva mentito perché sapeva perfettamente chi fosse il colpevole e voleva coprirlo: “E’ stato mio marito Giovanni Vercellino a uccidere. Lo ha fatto su istigazione del Battista che voleva liberarsi della moglie. Come ricompensa ha ricevuto 7 mila lire”.
Vercellino si prende la colpa, conferma di avere ucciso la Cavallo con la roncola ma poi aggiunge: “Io soldi non ne ho avuti, tutto è stato combinato tra mia moglie e il Battista. Non ho visto manco una lira, è stata la Mammola a ricevere 10 mila lire come compenso”.
Se non bastasse, per altro, oltre al fatto che gli inquirenti non si riescano a spiegare come un uomo nelle sue condizioni fisiche avrebbe potuto sorprendere e uccidere una donna forte come Tersilia, Vercellino davanti al procuratore della Repubblica ritratta.
13 febbraio 1956.
La verità finalmente viene a galla. Dopo aver accusato Libralato, suo marito e quello della vittima, alla fine Mammola Navari confessa. Si, è stata lei.
Era andata nel bosco per raccogliere le fascine insieme a Tersilia Cavallo. Vicino a un gruppo di alberi trovano dei rami già tagliati e raggruppati che, una volta legati, avrebbero solo dovuto portare via. Il problema è che la Cavallo vorrebbe prenderseli tutti per sé e, alle contestazioni dell’amica, le avrebbe risposto apostrofandola come “sgualdrina”. È per questo che sarebbe stata massacrata a colpi di roncola.
Liberi, Vercellino e Battista vengono rilasciati nei pressi di un bar. Qui entrano e, insieme a una folla di curiosi, si mettono a bere per festeggiare il loro rilascio, nonostante uno abbia la moglie morta e l’altro ce l’abbia dietro alle sbarre. Lasciato solo dal Battista, Vercellino, per altro, riferirà a quella piccola folla che sapeva che la consorte lo aveva accusato per disfarsi di lui e che avrebbe voluto prendersi la colpa perché probabilmente la vita in galera, per lui, sarebbe stata meglio di quella di angherie che le faceva subire la giovane. La vicenda, per altro, gli ha fatto anche perdere la casa, cosa per la quale viene improvvisata una colletta proprio al bar e che lo costringerà, quella sera, a dormire in un cinema di Rivoli.
Questa storia densa di colpi di scena ne ha uno finale il 7 marzo. Si, le fascine nel bosco erano state il motivo scatenante della tragedia ma dietro a tutto c’è il motivo più antico del mondo. La Navari lo confida a una sua compagna di cella: uccise la Cavallo perché, senza dirle niente, si era messa a fare la corte a un alpino di cui lei era innamorata follemente, un certo Carlo. Non è dato sapere a nessuno, neanche all’assassina, se tra i due fosse effettivamente successo qualcosa ma una gelosia morbosa, cieca, inenarrabile era stata sufficiente per uccidere.
Nel 1958, dichiarata seminferma di mente, Mammola Navari viene condannata definitivamente a 17 anni di carcere e 3 di casa di cura.
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