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05 Luglio 2025 - 12:06
dal sito di Kappa futuro festival
C’è un festival a Torino. Ma non un festival qualunque. Un festival mondiale. Uno di quelli che, mentre a Palazzo Civico si sbrodolano addosso per il concerto jazz in via Barbaroux, mentre si spendono fiumi d’inchiostro istituzionale per l’inaugurazione della panchina in via Cernaia o per la sagra del peperone di Carmagnola, porta davvero centinaia di migliaia di persone nel cuore della città. Si chiama Kappa FuturFestival, e ogni estate trasforma Parco Dora – un’ex area industriale dimenticata dai più – in una capitale mondiale (nel vero senso della parola) della musica elettronica.
Ma nonostante tutto questo, nonostante 135 DJ da ogni angolo del pianeta, nonostante giovani provenienti da 150 Paesi, nonostante il sold out annunciato mesi prima, nonostante il clamore mediatico internazionale, nonostante il fiume di denaro che si riversa nelle casse di bar, hotel, trasporti e locali, nessuno – in Comune e in Regione – pare essersene accorto con il dovuto "rispetto".
Il festival esiste? Boh. Non risulta nei comunicati. Non è nelle stories degli assessori. Non è nemmeno un rigo nei programmi culturali ufficiali. Troppa techno, poca lirica. Troppi ragazzi, poca banda. Troppa energia, poca staticità. Troppa vita vera, e quindi – forse – troppo difficile da gestire, controllare, incasellare.
Perché, si sa: se c’è da rompere il cazzo per avere Sanremo, sono tutti in prima fila. Pronti con la sciarpetta, il tweet celebrativo, il selfie istituzionale. Se si parla di Eurovision, partono task force, conferenze stampa, patrocini, dichiarazioni d’amore in streaming e strette di mano con i conduttori. Ma quando si tratta di un evento che davvero fa girare l’economia, che porta turisti veri, che riempie gli alberghi fino a Settimo, che fa lavorare i bar, che impalla le app dei taxi da quante sono le chiamate, allora niente. Silenzio. Tutti zitti. Come se il Kappa FuturFestival fosse un rave abusivo in una cava abbandonata, invece che un’eccellenza italiana riconosciuta dal New York Times, Resident Advisor, DJ Mag e ogni piattaforma musicale seria del pianeta.
Eppure, mentre a Sanremo si canta ancora “Felicità” con Albano e Romina, a Torino ballano i giovani di Berlino, New York, Tokyo, Londra e Città del Capo. Ma chi se ne frega, no? Il mondo si muove, Torino no.
Il paradosso è questo: il Kappa FuturFestival è più famoso del Festival di Sanremo, più famoso del festival del libro, più famoso di Torino stessa, solo che non lo sanno. Non lo sa la Regione Piemonte, che preferisce promuovere eventi da sagra con la banda del paese e il gettone per il panino con la salamella. Non lo sa il Comune di Torino, troppo impegnato a tagliare nastri per fiere semideserte sotto i portici. Non lo sa nemmeno la sottosegretaria alla cultura di turno, quella che appena sente la parola “techno” alza gli occhi al cielo e chiede se è una cosa da centri sociali.
E intanto, i social di mezzo mondo parlano di Torino come della mecca della musica elettronica. Parliamo di 100.000 persone al giorno, sei palchi tematici, performance con intelligenza artificiale, show audiovisivi all’avanguardia, live set che entrano nella leggenda. Ma l’assessore alla cultura manco ci va. Preferisce l’inaugurazione della mostra sulle ceramiche piemontesi dell’Ottocento. E se ci va, non posta nemmeno una foto. Non sia mai che si veda uno che balla. O peggio, che sorride.
Il brand Torino? Ce l’avrebbero servito su un piatto d’argento. Lo stanno lasciando cadere come un bicchiere di plastica alla fine del festival. Non una campagna, non un pacchetto turistico, non un progetto per trattenere quei giovani in città il giorno dopo. Niente.
E mentre a Sanremo si contano i fiori dell’Ariston, qui si contano milioni di euro di indotto che ogni anno passano inosservati. Decine di Paesi rappresentati, media internazionali accreditati, influencer da ogni parte del globo, performance che finiscono su Netflix, su YouTube, sulle riviste di moda. Ma le istituzioni? Zero. Nessun piano per amplificare l’impatto, nessuna strategia di lungo periodo, zero narrazione ufficiale.
È quasi un miracolo che il Kappa FuturFestival esista ancora. Eppure, ogni luglio, Torino diventa la capitale mondiale della musica contemporanea. Una città giovane, cosmopolita, vibrante, reale. Ma nessuno, tra coloro che dovrebbero, se ne rende conto. Perché per i nostri amministratori, se non c’è Albano, non è cultura. Se non c’è Amadeus, non è evento. Se la musica non è cantata in italiano, è solo rumore. Ma il mondo, là fuori, la pensa diversamente.
E non basta nemmeno l’innovazione. Non bastano i palchi tematici – il Futur, il Voyager, il Solar, il Kosmo, il Nova e il Lab – con installazioni da Biennale, live strumentali, sessioni analogiche, sperimentazioni digitali e intelligenza artificiale. Non bastano Carl Cox, Charlotte de Witte, Solomun, Diplo, Peggy Gou, Anyma, Joseph Capriati, The Martinez Brothers, Floating Points, Nina Kraviz e decine di altri giganti.
Non basta nemmeno che Torino sia finita nella top 10 dei festival mondiali secondo DJ Mag, classificandosi al sesto posto tra i migliori eventi musicali del pianeta. Perché l’immobilismo culturale delle nostre istituzioni è più forte di qualunque beat.
E mentre Movement Entertainment, l’organizzatore del festival, si occupa a proprie spese della manutenzione del Parco Dora, Regione e Comune non muovono un dito. Il Kappa investe, riqualifica, illumina, fa vivere. E le istituzioni? Guardano altrove.
Torino, insomma, non valorizza ciò che ha. Ha un evento che tutte le altre città si sognerebbero, e lo tratta come un’appendice imbarazzante. Perché fa rumore. Perché fa ballare. Perché non lo gestiscono loro. Perché non si può impacchettare e vendere in consiglio comunale con la delibera “per il rilancio della cultura”.
Il Kappa FuturFestival è la prova che Torino potrebbe essere molto di più. Ma continua a scegliersi da sola il ruolo di comparsa. Preferisce celebrare se stessa in un eterno festival dell’autoreferenzialità, piuttosto che accettare la sfida della modernità.
E allora, anche quest’anno, il mondo verrà a ballare a Torino. Anche quest’anno parleranno di noi a New York, Londra, Berlino, Tokyo. Ma nessuno, a Palazzo Civico o in Regione, si prenderà la briga di dire: “Sì, questo è nostro. Questo è Torino”.
Perché la cultura, da queste parti, è ancora quella della sedia di velluto e del biglietto SIAE timbrato. Non quella delle sneakers impolverate dopo dodici ore di musica e connessioni globali.
Peccato. Il mondo era già qui. Solo che non avevano acceso la luce.
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