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02 Luglio 2025 - 01:30
caldo insopportabile
Aldo piange. Ha ottantasette anni, è ricoverato alle Molinette di Torino per uno scompenso cardiaco, ma il vero colpo al cuore glielo dà il caldo. In quella stanza senza aria, con le tapparelle abbassate e un ventilatore rumoroso che smuove solo afa, non ce la fa più.
Chiama in redazione, chiede aiuto, non per un farmaco o per un medico, ma per uscire. Vuole andare in cortile, cercare un po’ d’aria, un alito di vento, qualcosa che gli faccia sentire di essere ancora vivo. Si siede su una sedia a rotelle, aiutato da un’infermiera stanca e con la mascherina abbassata sul mento, e resta lì, immobile, aspettando una brezza che non arriva mai. “Mi sento come in un forno,” ci dice al telefono. Ma nessuno può fare di più.
Torino, luglio 2025. Nella sala d’attesa del reparto di neurologia delle Molinette il cartellino digitale appeso alla parete segna 34 gradi. Le tapparelle sono abbassate, le finestre aperte nella speranza che entri un refolo d’aria, ma l’unico risultato è un’ondata di afa che avvolge tutto. C’è chi agita un ventaglio improvvisato fatto con un foglio di carta. C’è chi versa acqua su un fazzoletto per passarselo sul collo. Alcuni pazienti, pur debilitati, si trascinano fino al piccolo cortile per prendere fiato. Altri si rifugiano nella cappella al piano terra, cercando refrigerio tra panche e pareti spesse. I ventilatori gracchiano, i “pinguini” tossiscono aria tiepida. Nessuno parla di conforto: si parla solo di sopportazione.
Nei corridoi, l’aria è immobile. Il personale cammina piano, a passi pesanti. I volti sono lucidi, gli occhi stanchi. Una dottoressa si ferma, chiude gli occhi e si appoggia a una parete. Un OSS tira un carrello carico d’acqua e succhi, distribuisce bottiglie, cerca di rispondere a tutto, ma lo fa in apnea. Nessuno ha la forza di lamentarsi. Perché nessuno ha più fiato.
Gli ospedali torinesi stanno soffrendo. Alle Molinette, al San Giovanni Bosco, al Maria Vittoria, si va avanti come si può. In alcuni reparti l’aria condizionata è fuori uso, in altri non è mai stata installata. Dove funziona, è spesso insufficiente. Dove non arriva, si arrangia con ventilatori da tavolo, condizionatori portatili, tende abbassate e bottiglie nei freezer.
Ma le temperature non scendono mai sotto i 30 gradi, e spesso salgono molto oltre. Nei locali senza finestre, o con esposizione a sud, l’effetto è quello di una serra. Il caldo è ovunque: nei letti, nei corridoi, negli ambulatori. Nei corpi, nelle teste.
I sindacati parlano di emergenza ignorata. Le segnalazioni si moltiplicano: disagi per il personale, situazioni critiche per i pazienti, turni impossibili da sostenere. A Rivoli e Pinerolo, il personale ha organizzato mobilitazioni: “Ci mandano in guerra senza armatura,” denuncia un’infermiera. “Stiamo scoppiando, e i pazienti con noi.”
L’ARPA Piemonte ha dichiarato l’allerta massima. Torino è in bollino rosso: disagio persistente, elevato rischio sanitario, caldo pericoloso per la salute. Le temperature percepite superano abbondantemente i 40 gradi. Ma non è solo una questione di numeri. È una questione di umanità. Di diritti elementari. Di dignità.
Il Comune di Torino ha attivato il “Piano Estate 2025” per supportare gli anziani e le persone fragili: servizi a domicilio, centri climatizzati, numeri verdi, volontari. Ma i servizi sono insufficienti, le risorse limitate. “Ho provato a chiamare il numero dedicato tre volte,” racconta Maria, pensionata di 84 anni. “Non risponde mai nessuno. Così rimango in casa, chiudo le persiane e aspetto la sera. A volte ho paura di non svegliarmi.”
La Regione Piemonte ha firmato un’ordinanza anti-caldo che vieta il lavoro all’aperto tra le 12.30 e le 16 nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura nei giorni di allerta rossa. Un provvedimento doveroso, ma che non tocca il cuore del problema: gli ospedali, le case di riposo, i servizi essenziali dove si continua a lavorare senza protezioni, senza pause, senza climatizzazione.
Il personale sanitario è allo stremo. Tra mascherine obbligatorie, camici, DPI, turni infiniti, il caldo diventa una tortura. “È come avere un termosifone in faccia,” dice un operatore sociosanitario. “Non stiamo lavorando. Stiamo sopravvivendo.” C’è chi ha avuto cali di pressione, chi è svenuto in corsia, chi si è messo in malattia per esaurimento. Ma nessuno se ne accorge, perché il sistema va avanti lo stesso. Sempre più vuoto, sempre più fragile.
Nel silenzio delle istituzioni, le storie si moltiplicano. Una giovane donna, colta da malore in un campo, è arrivata in pronto soccorso con 41 gradi di temperatura corporea interna. Ce l’ha fatta, per miracolo. Ma quanti ce la faranno? Quanti Aldo, quanti Maria, quanti infermieri resisteranno a luglio, ad agosto, se la situazione è già questa?
Le autorità si limitano ai comunicati. Parlano di resilienza, di monitoraggio, di sinergie. Ma la verità è un’altra: non c’è stata alcuna preparazione seria. E ogni anno si ripete la stessa scena, con gli stessi drammi, le stesse promesse, gli stessi ventilatori recuperati in fretta.
Intanto Aldo è ancora lì. Da ore. Seduto in cortile, con gli occhi chiusi e le mani sulle ginocchia. A fianco a lui, un altro vecchio in canottiera, anche lui in fuga dalla stanza calda. Non si parlano. Non c’è bisogno. Aspettano. Forse la brezza. Forse solo che qualcuno li guardi.
Ma il vento non arriva.
C’è qualcosa di profondamente inaccettabile nel leggere, nel 2025, storie come quella di Aldo. Non perché sia eccezionale, ma perché è purtroppo normale. Ordinaria amministrazione. L’Italia che si arroga il diritto di definirsi Paese moderno, europeo, civile, non è in grado di garantire neppure il diritto a respirare a chi soffre, a chi è fragile, a chi ha già dato tutto e ora chiede solo un po’ di rispetto.
Negli ospedali torinesi non c’è solo caldo. C’è una vergogna collettiva. Ci sono pazienti che sudano in reparti senza climatizzazione, medici che crollano in corridoio, infermieri che fanno turni massacranti tra pinguini guasti e ventilatori da campeggio. Ci sono reparti che restano aperti anche se l’impianto di raffreddamento è rotto da giorni, perché tanto che vuoi che sia, è solo estate.
E mentre tutto questo accade, le istituzioni si limitano a firmare ordinanze per vietare il lavoro nei cantieri nelle ore calde. Bene. Ma chi protegge chi lavora dentro un ospedale trasformato in forno? Chi ha il coraggio di dire che la sanità pubblica, se lasciata sola, non può reggere anche il peso del cambiamento climatico?
Il punto non è l’ondata di calore. Quelle ci sono sempre state e ci saranno ancora. Il punto è l’assenza totale di prevenzione, di investimenti strutturali, di pianificazione. Si interviene a disastro avvenuto, si rincorrono le emergenze, si distribuiscono bottiglie d’acqua come se fossero risarcimenti morali.
E così i reparti si svuotano di ossigeno e si riempiono di silenzi. I vecchi aspettano che passi la giornata. I giovani operatori sanitari resistono per senso del dovere. Le famiglie tacciono per stanchezza. E i politici, tutti, tacciono per convenienza.
Questo non è più un problema di stagioni. È una questione di giustizia. Una società che lascia cuocere i suoi malati nei letti d’ospedale è una società che ha smesso di curarsi, non solo dei corpi, ma della propria dignità.
Aldo piange. E non è il caldo. È che si sente solo. E noi, onestamente, ci siamo abituati a lasciarlo così.
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