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26 Giugno 2025 - 23:22
martina marchiò
A Rivarolo Canavese è arrivato un no. Secco, gelido, inscalfibile. “Lì non si fa politica”, hanno detto dal Comune. Lì è il castello dei Malgrà, luogo simbolico e pubblico. E “politica”, nel 2025, sembra essere diventato sinonimo di silenzio. Meglio non disturbare. Meglio non evocare parole scomode: Palestina, Gaza, genocidio. Meglio fingere che tutto sia normale, anche se l’umanità sta crollando sotto le bombe.
E invece questa sera, a Castellamonte, un gruppo di volontari e cittadini ha fatto una scelta diversa. Ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. Ha scelto di guardare in faccia la verità.
All’Ex Scaricatore, in Piazza Generale Romano, si è tenuto l’incontro “Umanità sospesa”, organizzato dall’associazione culturale ProximaMente di Rivarolo, che ha trovato ospitalità e dignità in un altro Comune. Castellamonte non ha avuto paura. Rivarolo sì.
Ma questa non è una polemica. Non deve esserlo. Mi prudono le dita ma non la voglio fare. Perché Gaza non è una bandiera da sventolare o strappare: è un grido che attraversa le coscienze. E questa sera, quel grido ha preso la voce di Martina Marchiò, coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere nella Striscia di Gaza, infermiera, scrittrice, attivista, essere umano nel senso più profondo e consapevole del termine.
Chi ha ascoltato Martina questa sera non ha assistito a una conferenza, ma ha vissuto una testimonianza che spezza il fiato, che toglie il sonno, che obbliga a fare i conti con le nostre scelte quotidiane. Perché ogni parola sua è un mattone che crolla, una finestra spalancata su una realtà che non possiamo più ignorare.
Martina è partita da Rivarolo per curare ferite lontane, e si è ritrovata in mezzo a un massacro. Da anni lavora nelle emergenze internazionali, da anni si muove tra missioni, ospedali, ambulanze, tende e sangue.
Ma Gaza – lo ha detto chiaramente – è qualcosa che non si può raccontare, si può solo provare a sopportare. Eppure lei, con una forza quasi mistica, ci ha provato. Ha raccontato tutto. I bambini amputati senza anestesia. Le cliniche che crollano. I colleghi uccisi. Le risorse finite. Il tempo che non basta mai. Le notti in cui si sceglie chi salvare e chi no.
“La fine di Gaza è la fine dell’umanità”, ha ripetuto spesso. E non è una frase retorica, è una diagnosi. Se lasciamo che accada, siamo già morti anche noi.
Martina ha parlato anche della fatica, del dolore, della disperazione. Ma lo ha fatto senza autocommiserazione, senza eroismo. Solo con lucidità. Ha ricordato la voce della sua collega, una dottoressa palestinese che ha detto: “Non me ne andrò da Gaza City. Per farmi uscire dovranno legarmi e trascinarmi via”.
Ha raccontato di chi cammina per chilometri ogni giorno pur di lavorare in una clinica che non ha più attrezzature, né elettricità, né medicine. Di chi lascia il proprio cibo ai figli e digiuna. Di chi ogni mattina spera solo che, al ritorno, la casa e la famiglia siano ancora lì.
E poi c’è lei, che in mezzo a tutto questo si è attaccata alla vita con le unghie e con i denti.
“Anche se il mondo crolla, io resto. Questa è la mia vita”. Martina Marchiò è tornata in Italia per qualche settimana per riprendere fiato, ma non per riposare. È venuta a raccontare. Perché raccontare è resistere. E se anche solo una persona in più capisce, se solo una coscienza si risveglia, allora vale la pena.
La serata è cominciata con il workshop per studenti curato dal dottor Alberto Mascena: “Umanità in bilico: i palestinesi, noi ed il futuro dell’essere umano”. Un titolo che sembra un grido collettivo. Poi una cena palestinese condivisa, con piatti che sanno di resistenza, sapori che provano a raccontare un popolo oltre i missili. E infine, la testimonianza. Un’ora di parole che sembravano fuoco. Parole che bruciavano. Non slogan, ma verità. Non propaganda, ma ferite aperte.
A chiudere la serata è stata la proiezione del docufilm “No Other Land”, candidato all’Oscar 2025. Un film che mostra, senza filtri, ciò che i governi non vogliono farci vedere. Bambini, donne, intere famiglie polverizzate in pochi secondi. Volti che non esistono più. E vite che non fanno notizia.
Martina Marchiò, nei suoi post, lo aveva già detto: “Questa è la mia strada. Qualcuno mi ha detto che finirò sotto a forza di vivere così. Ma non cambierò. Quando in gioco c’è qualcosa in cui si crede per davvero, non si scende a compromessi”.
E questa sera ha dimostrato che non è solo un’infermiera, né solo una testimone. È una coscienza collettiva. Una che ci obbliga a interrogarci. Una che ci mette di fronte alla nostra inerzia.
Quanti italiani, oggi, hanno il coraggio di ascoltare una voce come la sua? A Castellamonte, almeno per una sera, l’umanità non è stata sospesa. È stata riabilitata. Accolta. Messa al centro. E chi c’era non dimenticherà facilmente.
Nel frattempo, a pochi chilometri, il castello dei Malgrà resta chiuso. Sigillato. Inaccessibile alla verità. Ma non importa. La verità, quella vera, non ha bisogno di mura. Ha bisogno di orecchie, di cuori, di mani che non tremano. E questa sera, sotto il cielo del Canavese, l’umanità ha fatto sentire la sua voce.
C’è un momento, nella storia di ogni comunità, in cui bisogna smettere di girarsi dall’altra parte. Un momento in cui il silenzio non è più neutralità, ma complicità. Quando a Rivarolo qualcuno ha deciso che l’evento su Gaza non si poteva fare “perché lì non si fa politica”, ha dimostrato di non aver compreso nulla. Né della realtà, né del ruolo di un’istituzione pubblica, né tantomeno del significato profondo della parola umanità.
Perché non c’è niente di più politico del silenzio davanti a un massacro. E non c’è niente di più disumano che voltare le spalle a una cittadina che oggi è anche una delle poche voci italiane rimaste in ascolto e in azione a Gaza: Martina Marchiò, infermiera, operatrice umanitaria, testimone.
In un’epoca in cui l'indifferenza è diventata la scorciatoia per la tranquillità, Martina disturba. Perché dice la verità.Perché non usa eufemismi. Perché racconta i bambini amputati, le madri affamate, le tombe violate. E allora diventa scomoda. Troppo vera. Troppo reale. Più facile ignorarla. Più comodo non ospitarla.
Eppure, se Martina racconta Gaza non è per provocare. È per tendere la mano a un mondo che ha smarrito la bussola della giustizia. È per ricordarci che mentre noi discutiamo se un castello sia o meno luogo “adatto” a ospitare una voce, altrove un’intera popolazione è sotto assedio. Senza acqua, senza luce, senza pace. E con troppa poca attenzione.
La politica, quella vera, non è fatta di bandiere da sventolare o da nascondere. È il coraggio delle scelte, è la capacità di ascoltare, è il dovere di aprire spazi e coscienze. E se la politica locale non lo capisce, allora tocca alla società civile farsi carico di ciò che conta. Come ha fatto Castellamonte, che non si è chiesto “fa bene o fa male?”, ma semplicemente: “è giusto?”.
C'è un’infermiera di Rivarolo che cura ferite a migliaia di chilometri, mentre a casa sua qualcuno preferisce chiudere le porte. E allora la domanda non è più: “Si può fare politica in un castello?”, ma:
“Siamo ancora in grado di guardare la realtà negli occhi?”
Se curare è un atto politico, allora siamo tutti malati. E Martina Marchiò è la medicina che ci manca.
Commenti all'articolo
adriespo
27 Giugno 2025 - 14:20
Il problema è che questa gente si preoccupa solo di Gaza. Non si preoccupa degli israeliani, degli ucraini, degli iraniani, giusto per parlare di popolazioni in conflitto. Per loro esiste solo la popolazione di Gaza e ciò li rende sospetti, come minimo.
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