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25 Giugno 2025 - 22:21
Mentre a Wolfsburg, in Germania, si discute del futuro dell’azienda, qui a Moncalieri e Nichelino i lavoratori di Italdesign si battono per il presente. E lo fanno con la schiena dritta, con la dignità di chi ogni giorno varca quei cancelli e costruisce eccellenza, ingegno, qualità. Oggi hanno incrociato le braccia, si sono fermati, hanno detto basta. Perché dietro ogni strategia industriale ci sono loro: persone in carne e ossa, famiglie, figli, mutui, progetti, sogni.
E lo hanno fatto sotto un caldo afoso pazzesco, in una delle tre giornate più torride degli ultimi venticinque anni, assieme solo al 2003 e al 2022. Le tute inzuppate di sudore, il sole che picchia sul cemento rovente, le bottigliette d’acqua distribuite quasi come generi di prima necessità. Ma nessuno ha mollato. Nessuno ha fatto un passo indietro. “Anche il tempo è contro di noi, ma non ci fermerà” dice una lavoratrice, con la fronte madida e lo sguardo fiero.
Non è solo una protesta. È un grido, un appello, una richiesta di ascolto che parte da sotto il sole cocente del mattino, tra le tute blu e le mani strette attorno a uno striscione che dice tutto: “Italdesign non si svende. Si difende.” Ed è lì che si concentra tutta la verità di questa vicenda: Volkswagen, tramite Audi, vuole vendere Italdesign. È tutto confermato, tutto reale, tutto imminente. E poco importa se stiamo parlando di un’azienda che dà lavoro a 1.300 persone e muove un indotto che sfiora le 1.800 unità. Poco importa se stiamo parlando di un marchio storico, di un simbolo del saper fare italiano, di un nome che ha progettato e disegnato alcune delle auto più iconiche al mondo. Oggi, tutto questo rischia di finire nella logica dei bilanci.
Il presidio è stato indetto da Fiom e Fim in contemporanea con il vertice a Wolfsburg tra i sindacati europei e i vertici del gruppo tedesco. Ma qui non si parla tedesco, qui si parla il linguaggio della fatica e della paura. “Ci stanno scippando il futuro, e nessuno ci dice nulla” commenta un lavoratore con ventidue anni di servizio. Gli fa eco una collega: “Siamo qui da anni, abbiamo costruito innovazione, valore, e adesso ci trattano come un peso di cui liberarsi.”
A Wolfsburg, intanto, i rappresentanti sindacali italiani e tedeschi tentano un’operazione difficile: ottenere garanzie, chiarezza, trasparenza. Ma la sensazione, qui tra le transenne e il rumore dei clacson che sostengono la protesta, è che tutto sia già stato deciso. E che l’incontro sia solo l’ennesima passerella per addolcire l’amaro. “Se vogliono smontare Italdesign pezzo per pezzo, lo facciano sapendo che non resteremo in silenzio”, avverte un delegato sindacale.
E mentre l’attenzione mediatica si accende per qualche ora, nei capannoni l’attività rallenta. Ma non si ferma la coscienza collettiva di chi sa che il valore di un’azienda non si misura solo con i numeri. Si misura con le persone, con le idee, con l’orgoglio di un lavoro ben fatto. Ed è questo che oggi i lavoratori chiedono: rispetto. Non solo per il passato glorioso, ma per un presente che merita attenzione e un futuro che non può essere deciso da un consiglio d’amministrazione a migliaia di chilometri di distanza.
Italdesign è patrimonio industriale italiano. Lo sanno i lavoratori, lo sanno i sindacati, lo sa chi ogni giorno progetta, assembla, innova. E lo dovrebbe sapere anche chi ha in mano le leve del potere economico e politico. Perché lasciare che questa eccellenza venga venduta come un bene qualsiasi, senza una visione, senza una prospettiva, sarebbe una sconfitta per tutti.
“Noi non molliamo”, ripete una voce tra la folla. E quel “noi” non è retorica. È una comunità che ha deciso di resistere. Di esserci. Di lottare. Anche quando tutto sembra già scritto. Anche quando la speranza è l’unica cosa che resta da difendere.
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