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23 Giugno 2025 - 11:11
Credi in Dio? L’ASL pure. E paga
C'è qualcosa di disarmante — e insieme curioso — nel leggere nero su bianco, in una delibera firmata e protocollata con tutti i crismi, che il “servizio di assistenza religiosa cattolica” nei presidi ospedalieri di Ivrea, Chivasso e presso l’Hospice di Foglizzo costerà alle casse dell’ASL TO4 la modica cifra di 91.200 euro per il biennio 2025-2027.
Già, non si parla di missionari o volontari, di parroci pronti a offrire conforto spirituale mossi da vocazione e carità cristiana. No: si tratta di un vero e proprio servizio a pagamento, regolato da convenzione, con monte ore settimanale (ben 54 ore), turni, responsabilità gerarchiche, esoneri giustificati, codice comportamentale da rispettare, e persino rimborsi mensa al prezzo previsto per i dipendenti pubblici.
Il documento, firmato dal Direttore Generale Luigi Vercellino, ricorda in ogni comma che il servizio è previsto “in conformità con la legislazione nazionale vigente e con le norme concordatarie”, ma anche sulla base di un’intesa tra la Regione Piemonte e la Conferenza Episcopale del lontano 1998. È tutto perfettamente regolamentare. Anzi, la formulazione è quasi notarile.
“Si conviene e si stipula quanto segue”, si legge con solennità nelle prime righe della convenzione.
Ma ciò non toglie che la lettura lasci un certo spaesamento. Perché è inevitabile — per chiunque, credente o meno — porsi una domanda: da quando in qua le preghiere hanno un prezzo fisso al mese?
Nel dettaglio, il compenso pattuito è di 3.800 euro al mese, da corrispondere alla Diocesi, che provvede a inviare regolarmente la “nota relativa all’importo della liquidazione, con suddivisione delle ore imputate” alle varie sedi. Il tutto comprensivo anche di reperibilità. Sì, perché anche lo Spirito Santo, nel XXI secolo, pare abbia bisogno del turno notturno.
Il personale religioso — si precisa — può essere composto da presbiteri, diaconi, religiosi, religiose o laici, tutti “debitamente abilitati dall’Ordinario Diocesano”. Si tratta di figure scelte e revocabili “secondo le necessità”, in un sistema che — almeno sulla carta — funziona come una qualunque organizzazione sanitaria. Persino l’esonero dal servizio è previsto “per gravi e documentati motivi”, d’intesa tra Curia e ASL. In altre parole, anche il cappellano, se sbaglia, può essere sospeso come un qualsiasi dipendente pubblico.
Il linguaggio usato nella convenzione è rivelatore. Si parla di “relazione di sostegno psicologico a livello umano e sociale”, di “ministero spirituale attuato in forma individuale e/o comunitaria”, ma anche — e qui il tono si fa marcatamente tecnico — di “prestazioni di carattere amministrativo per l’organizzazione e le esigenze dell’ufficio”. Sì, perché il personale religioso, oltre a pregare, deve anche occuparsi di “archivio, custodia della Cappella, arredi e suppellettili sacre”.
La religione, insomma, entra in ospedale non solo in punta di piedi, ma anche con una contabilità precisa, un monte ore da rispettare, una “attività da rilevare mediante sistemi di rilevamento presenze”. E chi volesse fare visita a un paziente fuori orario può farlo — ma solo se è tra i nomi della lista aggiornata inviata dalla Curia alle Direzioni Mediche.
Non manca la parte legale. Le controversie vanno risolte presso il Foro di Ivrea. Le assicurazioni devono coprire “gli infortuni, compresi quelli in itinere”. La riservatezza deve essere garantita in base al GDPR. E sì, le spese per la Cappella — dal riscaldamento alla manutenzione straordinaria — sono tutte a carico dell’ASL.
Ora, non si tratta di mettere in discussione il diritto di ciascuno a ricevere conforto religioso. È un diritto sacrosanto. Ma ci si interroga sul modello: nel tempo delle parrocchie in crisi di vocazioni, delle chiese sempre più vuote, e delle diocesi che lamentano scarsità di mezzi, si decide di istituzionalizzare la preghiera nei reparti — non come gesto gratuito di prossimità, ma come servizio formalizzato, con tanto di codice disciplinare da rispettare.
La figura del cappellano ospedaliero, certo, è antica e preziosa. Ma nell’era in cui ogni spesa sanitaria è passata al vaglio con rigore, e ogni euro dev’essere giustificato, ci si stupisce che non ci sia alcuna discussione pubblica sull’opportunità di mantenere un simile stanziamento. O, quantomeno, che non si chieda alla Diocesi di fornire gratuitamente un servizio che è, nel cuore stesso della sua missione, gratuito per definizione.
Forse è solo una questione di linguaggio. Forse, se non lo chiamassimo “servizio” ma “ministero”, se non parlassimo di “convenzione” ma di “collaborazione”, se invece di 3.800 euro al mese ci fosse una raccolta tra i fedeli per mantenere l’assistenza spirituale negli ospedali, allora tutto risulterebbe meno straniante. Ma così com’è, il documento sembra più un accordo commerciale che una collaborazione pastorale. Una preghiera in convenzione. Con tanto di bollo, codice CIG e firma digitale.
E anche solo per questo, vale la pena raccontarlo. Perché anche lo stupore, a volte, è una forma di rispetto. E leggere che “l’attività prestata non costituisce presupposto per l’inserimento stabile nell’organizzazione dell’ASL TO4” è come sentire un’eco lontana dire: la fede, sì, ma solo a progetto. Amen!
C’è qualcosa che ci inquieta quando la fede diventa oggetto di convenzione, quando la spiritualità — quella che nasce nel silenzio, nell’intimità del dolore, nel bisogno di senso — viene trasformata in un “servizio” con monte ore, budget, nota spese e protocollo.
Non è questione di anticlericalismo. Anzi, proprio chi crede nel valore profondo della fede, chi riconosce il conforto che una preghiera può portare in un letto d’ospedale, dovrebbe porsi qualche domanda davanti a un documento che definisce la presenza del sacerdote al capezzale come “prestazione imputabile”, gestita con sistemi di rilevamento delle presenze e con responsabilità disciplinari allegate.
La religione, per sua natura, non è un servizio a domanda individuale. Non è un’attività misurabile in ore e minuti. È relazione, prossimità, vicinanza gratuita. È il parroco che entra in corsia senza chiedere nulla, se non il permesso e il rispetto. È l’anima che incontra l’anima, non una voce di spesa.
Il punto, qui, non è giudicare le intenzioni della Curia o le delibere dell’ASL. Tutto è legittimo, tutto è regolato. Ma è proprio questo che ci lascia spiazzati: il fatto che non ci sia più nemmeno il bisogno di fingere che la fede, almeno nei suoi gesti più nobili, possa essere donata.
Un tempo erano i cappellani, spesso anziani, che vivevano dentro l’ospedale come custodi silenziosi della speranza. Oggi sono operatori esterni, in convenzione, con diritto alla mensa e obbligo di aggiornare l’elenco dei collaboratori volontari. C’è una freddezza sistemica, una burocratizzazione del sacro che ci fa pensare che, forse, qualcosa è andato storto.
Eppure ci sarebbe un altro modo. Si potrebbero immaginare presenze religiose sostenute dalle comunità, dai fedeli, da reti di solidarietà. Si potrebbe restituire alla preghiera quel senso di dono gratuito che, in fondo, è l’essenza stessa del messaggio evangelico.
Ma forse ci siamo abituati all’idea che tutto abbia un prezzo. Che anche il cielo, prima di essere invocato, debba essere protocollato.
LA VOCE DEL CANAVESE
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