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Ticket da pagare dopo nove anni: sanità e "vengogna"

Le Asl piemontesi rincorrono i malati per fare cassa, invocano il “dovere d’ufficio” e scaricano ogni responsabilità su chi, anni fa, si è fidato di un medico. In compenso, nessuno sa nemmeno quanti siano i cittadini colpiti. La Regione? Fa spallucce

Ticket da pagare dopo nove anni: sanità e "vengogna"

Questa storia comincia in uno studio medico e finisce – anni dopo – in una cartella esattoriale. Non è una parabola sull’efficienza sanitaria, ma una tragicommedia burocratica scritta tra i corridoi della Regione Piemonte e i server di Sogei. A essere chiamati sul banco degli imputati sono migliaia di cittadini, rei – secondo le Asl – di aver usufruito, in passato, di esenzioni dal ticket “non correttamente giustificate”.

A scoprirlo, però, ci si mette nove, dieci o più anni. A quel punto, l’orologio della sanità pubblica si sveglia all’improvviso, batte cassa, calcola gli interessi e notifica l’ennesimo rovescio a chi un tempo ha avuto l’ardire di ammalarsi.

Il paradosso è servito. I cittadini ricevono avvisi per presunti errori sulle esenzioni. Ma chi li ha commessi? Le Asl non si pongono la domanda. Loro notificano, esigono, minacciano sanzioni. Tocca al cittadino giustificarsi. Deve risalire a una prescrizione di anni fa, scovare il medico che la firmò, farsi timbrare ogni singolo esame. Ma se il medico è andato in pensione, è morto o è stato cambiato nel frattempo? Problema tuo. Se non trovi chi appose quel codice di esenzione sulla ricetta? Peggio per te. Se quella ricetta l’hai semplicemente portata in farmacia senza neanche accorgerti dell’esenzione? Paghi lo stesso.

È un meccanismo che si autoalimenta, impazzito. Eppure, la giustificazione c’è: “atto dovuto”. Così lo definiscono in Regione. Le Asl hanno ricevuto i dati incrociati di Sogei e, come impongono le regole, chiedono il recupero degli importi “non congrui”. Poco importa se si tratta di pensionati che non ricordano neppure quale farmaco stessero prendendo nel 2016, o di malati cronici ai quali oggi si chiede di dimostrare – con firma e timbro – patologie mai cessate. Si pretende memoria, precisione, obbedienza. E si impone il paradosso: se l’errore lo ha fatto il medico, paga il paziente.

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Una stortura che il consigliere regionale Pasquale Coluccio ha denunciato con forza in Consiglio: «È irragionevole e inaccettabile far ricadere sul paziente la responsabilità di un eventuale errore del medico, tanto più a distanza di anni. Se un medico ha ritenuto di applicare l’esenzione per patologia all’atto della prescrizione, questa deve considerarsi valida. In caso contrario, la responsabilità è da attribuire al prescrittore, non al cittadino». Parole di buonsenso, che però si scontrano con l’arroganza opaca di una macchina amministrativa che, per rientrare dai debiti, sembra pronta a vendersi anche la memoria delle cartelle cliniche.

Perché è questo il punto: non ci troviamo davanti a un caso isolato. Qui si apre un nuovo fronte nel grande spettacolo della sanità che non sa più dove raschiare il fondo del barile. Dopo anni di definanziamento, tagli lineari, personale ridotto all’osso e ospedali in affanno, ecco la strategia: spremere i cittadini. Ripescare pratiche vetuste, affidarsi a banche dati automatiche, e pretendere giustificazioni su ricette che la stessa Regione ha approvato all’epoca. Con che faccia, oggi, si presentano a battere cassa?

Nel caso delle esenzioni per reddito – più semplici da verificare – il caos è già conclamato. Ma è nel capitolo delle esenzioni per patologia che il sistema svela la sua crudeltà burocratica: perché chiede a chi sta male (o stava male) di muoversi tra certificati, fascicoli, archivi perduti e dottori scomparsi. Un percorso a ostacoli che, in nome della correttezza formale, trasforma l’assistito in colpevole. Senza appello.

Nel frattempo, nessuno sa quanti siano i piemontesi colpiti da queste richieste. Nessuna comunicazione ufficiale, nessun numero certo. Solo la certezza che a ogni cartella corrisponde una persona che dovrà difendersi da sola da un sistema che ha smarrito il senso della giustizia. Altro che diritto alla salute. Qui siamo nel regno dell’autotutela: chi non ha la forza di lottare, paga; chi ci riesce, forse, riesce a salvarsi.

In un Paese in cui le istituzioni condonano miliardi a evasori e palazzinari, lo zelo si abbatte su chi ha portato una ricetta in farmacia. E se nel 2016 c’era scritto un codice sbagliato, oggi paga. Anche con gli interessi.

Insomma, altro che sanità al servizio del cittadino: qui il cittadino è diventato il bancomat della sanità.

La riscossione della vergogna: quando la politica se la prende con i deboli

C’è un filo rosso – anzi, un cappio – che stringe il collo della sanità pubblica italiana e che la politica ha deciso di tirare ancora più forte: quello che trasforma i poveri in truffatori e gli anziani in bersagli.

La vicenda delle cartelle esattoriali recapitate a distanza di quasi dieci anni per presunte “esenzioni indebite” non è soltanto un pasticcio burocratico. È lo specchio di una politica vigliacca, che quando i soldi mancano non osa sfiorare i grandi evasori, i furbi, i privilegiati, ma si accanisce sugli ultimi. Su chi ha più difficoltà a difendersi. Su chi, magari, ha una pensione da 640 euro al mese, la pressione alta, i farmaci salvavita da prendere tutti i giorni, e ora pure una lettera dell’Asl che gli chiede conto di una ricetta del 2016.

La gran parte degli “esentati” finiti nel mirino delle Asl piemontesi non sono speculatori seriali. Sono pensionati. Persone fragili. Malati cronici. Vedove. Ottantenni che vanno dal medico col bastone, che non distinguono una “E01” da una “E05”, e che hanno sempre fatto affidamento su quel che diceva il dottore. Ora gli si dice che no, dovevano controllare, sapere, verificare, conservare ogni foglio. E se non riescono a dimostrare nulla? Pagano. Con gli interessi. E con l’umiliazione.

Ma la politica dov’è? In che mondo vivono gli assessori regionali, i parlamentari di turno, i burocrati delle commissioni? Sono forse convinti che un’anziana con una pensione minima si sia organizzata, nove anni fa, un elaborato raggiro per risparmiare 12 euro di ticket su una scatola di pillole per la pressione? No, non lo pensano. Semplicemente, non gli importa. Loro fanno cassa. E poco importa se in nome della “legalità” si fa strame della giustizia.

Siamo passati dal principio costituzionale del “diritto alla salute” alla strategia contabile del “raccatta dove puoi”. E dove puoi, oggi, è tra le pieghe dei cittadini deboli. Perché loro non ingaggiano avvocati. Non rilasciano interviste. Non vanno nei talk show. Pagano in silenzio.

In un Paese serio, la politica avrebbe già sospeso queste riscossioni. Avrebbe riconosciuto che il problema non sono i cittadini, ma l’incapacità di uno Stato che non sa verificare i dati in tempo reale e poi, anni dopo, si sveglia con la fame di gettito. Invece no. Si continua, a testa bassa. Anzi, si rilancia. Si difende l’indifendibile, come se non ci fosse nulla di più normale che chiedere a un settantacinquenne di ripercorrere la propria storia clinica per trovare un timbro mancante.

La verità è una sola: la politica ha smesso di rappresentare i cittadini, soprattutto quelli che contano meno. Ha smesso di proteggerli. E oggi, li manda alla cassa.

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