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18 Giugno 2025 - 16:53
In un carcere del Piemonte, quello di Ivrea, sono rinchiuse mediamente una decina delle circa settanta persone transgender presenti oggi negli istituti penitenziari italiani. Un numero che sembra piccolo, ma che in realtà racconta di una delle minoranze più estreme e vulnerabili dell’intero sistema carcerario. Ed è proprio da Ivrea che lunedì 23 giugno, alle 14.30, nella Sala Dorata di Palazzo Civico, partirà una riflessione pubblica e partecipata sul tema della detenzione delle persone transgender, con la conferenza intitolata “Trans in carcere. Il territorio, la pena, le persone e la transizione di genere”.
L’iniziativa nasce in diretta continuità con la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, celebrata ogni anno il 17 maggio, e vuole essere – come si legge nel comunicato degli organizzatori – “un’occasione di confronto sul tema della detenzione delle persone transgender, prendendo spunto dalle più significative ed innovative esperienze e buone prassi attuate in Italia”.
A Ivrea si parlerà di carcere, ma soprattutto si parlerà di discriminazioni, di esclusione, di dignità negata. La conferenza intende accendere i riflettori su un gruppo di persone che, oltre agli effetti devastanti della privazione della libertà personale, subisce quotidianamente forme di emarginazione aggiuntiva.
“Si sta parlando di una minoranza estrema nell’ambito penitenziario: un gruppo di persone che aggiungono agli effetti negativi della privazione della libertà personale quelli legati a discriminazioni specifiche”, scrivono gli organizzatori.
La prima e più evidente tra queste discriminazioni è quella di sistema: troppo spesso, le persone transgender vengono trattate come una parte “diversa” rispetto al resto della popolazione detenuta. Diverse nei numeri, certo. Ma soprattutto diverse nel modo in cui vengono gestite, assegnate alle sezioni, integrate (o escluse) nei percorsi trattamentali.
Il rapporto annuale 2024 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti lo afferma con chiarezza: “In linea di principio, le persone transgender dovrebbero essere collocate nella sezione del carcere corrispondente al sesso a cui si identificano”, indipendentemente da quanto indicato nei loro documenti anagrafici. Ma la realtà carceraria italiana è ben lontana da questo principio.
La prassi consolidata è quella della collocazione in sezioni protette, quasi sempre all’interno di carceri maschili. Una protezione solo apparente, che si trasforma in isolamento, in esclusione, in ulteriore privazione.
“La reclusione nelle sezioni protette delle persone transgender, forse più sicure ma pur sempre all’interno di carceri maschili, comporta problemi di accesso alle attività trattamentali (cultura, scuola, lavoro, etc.) e spesso anche ai beni di supporto, aprendo così la strada alla violazione dei loro diritti”, si legge ancora nel comunicato.
A confrontarsi su questi temi saranno, tra gli altri, Gabriella Colosso, assessora alle Politiche di integrazione, Pari opportunità e Lavoro del Comune di Ivrea, Raffaele Orso Giacone, garante comunale delle persone private della libertà, Alessia Aguglia, direttrice della Casa Circondariale di Ivrea, Sofia Ciuffoletti, ricercatrice dell’Università di Firenze e garante a San Gimignano, Daniela Ronco, professoressa dell’Università di Torino e membro del Comitato scientifico di Antigone, Antonietta Cozza, avvocata e attivista del MIT di Bologna, Cristina Bocca, direttrice del Centro Servizi Formativi Casa di Carità Arti e Mestieri, Silvia De Giorgis, volontaria dell’AVP attiva nel carcere eporediese, e Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà.
Il titolo della conferenza, “Trans in carcere”, riassume una questione di cui si parla troppo poco, e male. La scelta della sede – la Sala Dorata del Comune – testimonia invece la volontà di aprire un dibattito pubblico, aperto, accessibile, che riguarda tutti: non solo chi vive o lavora all’interno delle carceri, ma chiunque creda che l’identità di genere e i diritti umani non debbano essere sospesi con la libertà.
Perché essere privati della libertà personale non può e non deve mai significare essere privati della propria identità. E nemmeno del diritto a essere considerati persone.
Il termine transgender si riferisce a una persona la cui identità di genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita. Questo significa che, per esempio, una persona nata con un corpo maschile può identificarsi come donna, così come una persona nata con un corpo femminile può riconoscersi come uomo. Ma l’identità transgender va oltre questa semplice inversione: può includere anche chi non si riconosce né completamente uomo né completamente donna, oppure chi si identifica in un genere fluido.
Essere transgender riguarda il modo in cui una persona percepisce profondamente se stessa e come desidera vivere la propria identità nel mondo. Non è necessario aver intrapreso un percorso medico, ormonale o chirurgico per essere considerati transgender: ciò che conta è il sentire interiore, il bisogno di essere riconosciuti nella propria verità.
A differenza di cisgender, termine che indica chi si identifica nel genere corrispondente al proprio sesso biologico, una persona transgender affronta spesso un cammino complesso, fatto di affermazione, visibilità e, purtroppo, anche di discriminazioni. Il termine transessuale, utilizzato più frequentemente in passato, viene oggi considerato parziale o riduttivo, perché tende a ridurre l’identità di genere alla sola dimensione medica della transizione.
Riconoscere le persone transgender significa rispettare il loro nome, il loro genere, la loro identità in ogni contesto della vita quotidiana, comprese le istituzioni e i luoghi più rigidi, come il carcere. Perché l’identità non è un’opinione, ma un diritto.
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