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Cronaca

È morto Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’Avvocato

Aveva 96 anni. Da Gianni Agnelli alla Juventus, da Fiat a Compagnia di San Paolo, fu il custode discreto dell’impero Agnelli e protagonista delle grandi manovre del capitalismo italiano. Torino perde una figura chiave della sua storia giuridica, industriale e culturale

È morto Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’Avvocato

Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’Avvocato

Franzo Grande Stevens, “l’avvocato dell’Avvocato”, come fu soprannominato per la fedeltà, l’acume e la riservata influenza esercitata accanto a Gianni Agnelli per più di mezzo secolo, è morto oggi.

Lo hanno reso noto fonti vicine alla famiglia. Avrebbe compiuto 97 anni il prossimo 13 settembre. Figura centrale della Torino industriale, finanziaria, giuridica e sportiva, Grande Stevens è stato molto più di un professionista del diritto: è stato un cardinale laico del potere sabaudo, un arbitro elegante e implacabile dei passaggi più delicati della dinastia Agnelli, e il grande regista silenzioso delle transizioni che hanno segnato il capitalismo italiano del secondo Novecento.

Nato a Napoli il 13 settembre 1928, si laurea in legge nella sua città e si trasferisce poi a Torino, dove nel 1954 si iscrive all’Albo degli Avvocati. Nella capitale sabauda costruisce una carriera brillante, entrando in contatto con gli ambienti più raffinati e potenti dell’economia industriale italiana. La sua abilità dialettica, la profonda conoscenza del diritto societario e il carattere misurato lo rendono uno degli avvocati più richiesti e rispettati. Ha tra i suoi clienti nomi altisonanti come Carlo De Benedetti, Luigi Giribaldi, Karim Aga Khan, ma anche famiglie-simbolo del tessuto produttivo piemontese e nazionale come i Ferrero, i Pininfarina, i Lavazza.

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Il sodalizio più noto, e più determinante, è però quello con Gianni Agnelli, che vede in lui un consigliere fidato, un garante silenzioso, un uomo capace di gestire la macchina complessa del potere e della successione. Quando nel 2003 l’Avvocato muore, è proprio Franzo Grande Stevens, insieme a Gianluigi Gabetti, a tenere salde le redini dell’impero, in un momento in cui Fiat è vicina al baratro. L’operazione più nota, e più discussa, resta quella del 2005, l’equity swap che permise alla famiglia Agnelli di mantenere il controllo su Fiat nonostante le difficoltà finanziarie. Una mossa ardita, controversa, che finì nel mirino della Consob e della Procura, ma che di fatto gettò le basi per il rilancio della società sotto la guida di Sergio Marchionne. Senza quella scelta, oggi probabilmente non esisterebbe né Stellantis né l’attuale assetto della holding Exor.

Nel 2003, pochi mesi dopo la morte dell’Avvocato, Grande Stevens diventa presidente della Juventus, guidandola in una delle fasi più complesse della sua storia. È in carica fino al 2006, gli anni in cui scoppia lo scandalo di Calciopoli, che travolge il club e l'intero sistema calcistico italiano. Fu lui a presiedere il Consiglio d’Amministrazione che accettò la retrocessione in Serie B, una decisione mai digerita da parte della tifoseria juventina, che ancora oggi si interroga se l’avvocato abbia ceduto troppo facilmente, forse per proteggere Exor e le aziende di famiglia. Anche dopo la fine del suo mandato operativo, rimane presidente onorario della Juventus, mantenendo un legame profondo con il club, testimoniato anche dalle parole ufficiali della società: “Da sempre legato ai colori bianconeri, dal 2003 al 2006 è stato il nostro presidente, diventando proprio a partire da quell'anno presidente onorario del club. La Juventus si stringe nel dolore e rivolge le condoglianze e un forte abbraccio alla famiglia”.

Nel corso della sua carriera Grande Stevens ha ricoperto incarichi di primissimo piano anche in ambito economico e culturale: presidente della Toro Assicurazioni, vicepresidente della Fiat, presidente della Compagnia di San Paolo. Ogni ruolo portato avanti con il suo stile sobrio e autoritario, con la voce bassa e ferma di chi non ha bisogno di alzare i toni per farsi ascoltare. Non amava i riflettori, né le interviste: era un uomo d’ombra, ma con poteri reali e decisivi. Stefano Lo Russo, sindaco di Torino, ha così commentato la sua scomparsa: “Con la sua scomparsa Torino perde una mente acuta, figura importante nella storia giuridica, economica, culturale, sportiva della nostra città. Condoglianze sentite vanno alla sua famiglia e ai suoi cari”.

Con la morte di Franzo Grande Stevens finisce un’epoca. La sua figura appartiene a quel pantheon di uomini che hanno attraversato il secondo Novecento italiano non cercando il protagonismo, ma costruendo nei corridoi, nei consigli d’amministrazione, negli studi legali, i veri equilibri di potere. È stato il garante della continuità della dinastia Agnelli, il tessitore dei passaggi cruciali, colui che conosceva ogni dettaglio dei contratti, dei patti parasociali, dei dossier più riservati.

Il vuoto che lascia non riguarda soltanto la famiglia Agnelli o la Juventus, ma l'intera Torino, quella delle fondazioni bancarie, delle grandi famiglie industriali, degli avvocati “di razza”. Era, in un certo senso, l'ultimo custode di un modo di intendere il potere in modo riservato, colto e strategico. In tempi in cui il capitalismo è diventato performativo e frenetico, Franzo Grande Stevens resta il simbolo di una stagione in cui contava di più la coerenza giuridica di un’operazione che l’apparenza comunicativa.

Oggi Torino, il Piemonte, l’Italia perdono un pezzo di storia, ma anche uno stile. Un uomo che, in silenzio, ha avuto tra le mani le chiavi di interi imperi.

L’uomo che sapeva ascoltare:
piccoli ritratti di Franzo Grande Stevens

Aveva il tono basso e il passo felpato, ma quando apriva bocca, nella Torino che conta, tutti stavano zitti. Perché Franzo Grande Stevens, che non era né un politico né un industriale né un uomo di spettacolo, riusciva a far pesare le sue parole più di chiunque altro. L’Avvocato – quello con la A maiuscola, Gianni Agnelli – lo chiamava “il mio scudo”. Non a caso: lo proteggeva dalle cause, dai rischi societari, dalle beghe familiari. E soprattutto lo aiutava a costruire, giorno dopo giorno, la macchina perfetta della sua eredità.

Una volta, durante una riunione infuocata del consiglio d’amministrazione Fiat, pare che Gianni Agnelli avesse detto: “Facciamo come dice Franzo, tanto poi si fa come dico io”. E l’altro, impassibile, si limitò a incrociare le mani, senza replicare. Il gioco tra i due era sempre stato questo: l’uno appariva, l’altro agiva. Uno dava il volto, l’altro teneva la penna. Ma erano complementari, inseparabili.

Quando si trattò di scegliere chi dovesse guidare il futuro della dinastia, fu Grande Stevens, con Gabetti, a indicare John Elkann. Un giorno gli chiesero: “Avvocato, ma è davvero pronto questo ragazzo?” e lui, con la solita ironia tagliente, rispose: “È giovane, ma ha i numeri. Speriamo che impari in fretta, sennò toccherà rifare tutto daccapo”.

Anche nel mondo della Juventus il suo stile restò inconfondibile. Non parlava mai in pubblico, ma bastava un suo gesto o una firma per far capire che si stava chiudendo un’era o aprendo una nuova fase. Quando nel 2006, nel pieno di Calciopoli, la società accettò la Serie B, pare che in una stanza a porte chiuse abbia detto: “La dignità non si compra con un ricorso”. Una frase che ancora divide i tifosi, ma che rispecchia il suo modo di pensare: l’onore prima di tutto, anche a costo di perdere.

Era così anche nella vita privata. Non amava i salotti, disdegnava le passerelle, ma nella sua casa di via Maria Vittoria – cuore elegante di Torino – si racconta che custodisse una collezione di penne antiche e manoscritti giuridici d’epoca, di cui parlava solo con pochi amici intimi. E ogni tanto si lasciava andare a battute fulminanti, con quella voce profonda e lenta che sembrava misurare il peso delle sillabe.

Una volta, quando gli chiesero quale fosse il suo vero mestiere, rispose: “Traduco il caos in ordine, il rischio in regola, l’ambizione in struttura”. Una definizione che forse non vale solo per un avvocato, ma per un architetto del potere. Uno di quelli che non passano in prima pagina, ma che ne scrivono la trama.

Franzo Grande Stevens non è mai stato un uomo qualsiasi. È stato l’uomo che stava accanto al potere, ma non ne ha mai abusato. Lo ha studiato, gestito, forse amato, ma sempre con eleganza. E con quella distanza sobria che oggi sembra quasi d’altri tempi.

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