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10 Giugno 2025 - 21:58
Si incatenano davanti alla Città Metropolitana: agricoltori esasperati dai cinghiali e dai ritardi nei risarcimenti
Si sono presentati con una catena al collo e la dignità ferita. Davanti al palazzo della Città Metropolitana di Torino, non ci sono andati per chiedere l’elemosina. Si sono incatenati per farsi sentire, per rompere quel muro di silenzi e promesse mancate che da anni lascia le aziende agricole alla mercé della burocrazia e dei cinghiali.
Monica Iuliano e Roberto Castelli non sono attivisti qualunque. Sono i titolari de Le Frisole, una piccola ma tenace azienda agricola biologica di Giaveno, incastonata tra i boschi della Val Sangone. Quattro ettari coltivati con passione, metà dei quali dedicati a un orgoglio del territorio: le patate di montagna a Denominazione Comunale (De.Co.). Patate che dovrebbero valere 3,80 euro al chilo, ma che il sistema dei risarcimenti pubblici riconosce per appena 80 centesimi. Il prezzo della beffa.
Hanno dovuto incatenarsi per ottenere una risposta. Non un privilegio: un risarcimento per i danni causati dai cinghiali, che negli ultimi anni hanno devastato campi, raccolti, mesi di lavoro. Settemila euro di danni nel 2023, cinquemila nel 2024, e oltre 15 mila già registrati quest’anno, con l’aggravante che, per legge, l’importo massimo che potranno ricevere nel triennio è 25 mila euro. Il conto non torna. Né nei registri contabili, né nella coscienza.
“Siamo contenti che qualcosa si sia sbloccato, ma è allucinante dover arrivare a gesti estremi per avere ciò che ci spetta”, ha detto Castelli, visibilmente provato, dopo l’incontro con la nuova direttrice della Città Metropolitana, Monica Sciajno, che ha comunicato due “buone notizie”: la prima è che la Regione Piemonte ha autorizzato ieri il pagamento dei risarcimenti. La seconda è che questa sera un tutor faunistico sarà in azienda per pianificare abbattimenti mirati di cinghiali, affiancato dalle guardie metropolitane.
Ma la realtà, sul campo, è un’altra. Recinzioni elettrificate già saltate da bestie sempre più grosse. Coltivazioni azzerate in una notte. E la fatica di una vita che rischia di sgretolarsi ogni giorno, come terra sotto i cinghiali.
“Stiamo lavorando in perdita. A fine stagione chiuderemo”, ha ammesso Castelli, quasi sottovoce. Non per rassegnazione, ma per pudore. Perché chi lavora la terra non ama lamentarsi. Ma quando si arriva a dover scegliere tra seminare o sopravvivere, qualcosa si è rotto. “Ogni mattina ci svegliamo e troviamo i campi distrutti. Ogni volta ci diciamo che forse oggi è l’ultima volta. Poi ricominciamo. Ma fino a quando?”
Accanto a loro, in questa battaglia che è diventata simbolo, la CIA – Agricoltori delle Alpi, che ha seguito passo dopo passo la vicenda. “Ringraziamo la Città Metropolitana per la disponibilità – ha dichiarato il direttore provinciale Luigi Andreis –, ma non possiamo più stupirci se qualcuno forza la mano. La fauna selvatica è fuori controllo. Chi coltiva la terra non vuole cassa integrazione o sussidi. Vuole solo lavorare. E quando il risarcimento diventa l’unica voce utile in bilancio, vuol dire che l’azienda è già morta”.
E allora ci si incatena. Non per farsi notare, ma per non scomparire nel silenzio. Per dire che in Piemonte, nel 2025, chi coltiva patate rischia di sparire per colpa di cinghiali, burocrazia e abbandono. E che se lo Stato esiste, oggi ha l’occasione di dimostrarlo. Con i fatti, non con le pacche sulle spalle.
Perché Le Frisole non è solo un’azienda agricola: è una fotografia della nostra Italia minore, quella che resiste nei campi mentre altrove si gioca alla finanza. Ed è anche l’Italia che, ogni tanto, per non morire, si incatena.
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