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La sinistra della bandiera palestinese nel cassetto

A Chivasso la espongono in silenzio. A Ivrea e Settimo fanno le mozioni, i cortei, i post. Poi niente. La bandiera palestinese resta piegata. Come la coscienza.

La sinistra della bandiera palestinese nel cassetto

Matteo Chiantore sindaco di Ivrea e Elena Piastra sindaca di Settimo Torinese

A Chivasso, città amministrata da una maggioranza di centrosinistra a guida PD, la bandiera palestinese sventola da un balcone del municipio. Nessun clamore, nessuna conferenza stampa, nessuna polemica o mozione epocale. Uno striminzito comunicato stampa, ma la bandiera è lì. È lì. E basta. A parlare è il gesto, non l’eco sui social.

A Ivrea e Settimo Torinese, invece, succede l’esatto contrario. Lì la sinistra c’è, eccome. C’è anche di più. Organizzata. Numerosa. Si fa vedere, si fa sentire. Organizza, manifesta, dichiara. Fa le mozioni, le interpellanze, le assemblee, i presidi e i cortei. Eppure – alla fine – il nulla.

A Ivrea, per esempio, la richiesta di esporre la bandiera palestinese sul palazzo municipale è arrivata dopo un corteo imponente: duemila persone, due ali di folla lungo le strade del centro, decine di cartelli e striscioni, cori e appelli. Una mobilitazione popolare, partecipata, viva. Una di quelle occasioni in cui, se davvero ci tieni, un gesto simbolico lo fai. E invece no. La richiesta è stata accolta con freddezza, forse rimandata, diluita, forse archiviata. La bandiera non si è vista, né si vede.

A Settimo Torinese lo schema si ripete: il dibattito c’è stato, gli animi si sono scaldati, qualcuno ha persino cercato di intestarsi la moralità assoluta, come sempre. Ma anche lì, sulla facciata del municipio, la bandiera palestinese non è mai apparsa. 

Eppure quella bandiera non è un drappo qualsiasi. È un simbolo di resistenza, di lotta per l’autodeterminazione, di rifiuto dell’occupazione e dell’umiliazione quotidiana. Esporla non significa schierarsi contro qualcuno, ma stare dalla parte di chi, in questo momento, viene cancellato, bombardato, ucciso, mentre il mondo volta la testa. Quella bandiera è un grido muto in difesa dei civili, dei bambini senza acqua, dei medici sotto le bombe, delle madri che scavano tra le macerie.

Una, dieci, cento, migliaia di bandiere in tutta Italia.

E allora sì, parliamone. Discutiamone. Litighiamo pure. Insultiamoci, se serve. Diciamocene di cotte e di crude. Ma non silenziamoci. La polemica, il dibattito, lo scontro anche violento di opinioni non è sconveniente, è necessario. Perché parlarne – fino allo sfinimento, con rabbia, con dolore, con visioni opposte – significa accendere un faro. Su quei bambini morti sotto le bombe. Sulle famiglie cancellate in un istante. Sui civili, sulle scuole colpite, sugli ospedali ridotti in macerie. Sulla sofferenza di un popolo che chiede solo di esistere.

Non parlarne, invece, è abituarsi. È rassegnarsi. È far vincere l’indifferenza, che è la peggiore forma di violenza politica del nostro tempo.

 

Resta l’amara verità: la città che non parla, agisce e le città che parlano tanto la bandiera la tengono piegata in un cassetto. Perché, si sa, sventolarla comporta delle conseguenze, delle prese di posizione nette, delle domande a cui poi bisogna rispondere. Meglio allora tergiversare, rimandare, far finta di riflettere.

Una sinistra a corrente alternata, insomma. Che a Chivasso si accende in silenzio e fa le cose, mentre a Ivrea e Settimo si accende a intermittenza, secondo il calendario delle polemiche. E quando è il momento di alzare il vessillo, improvvisamente cala il buio.

Cosa ci piacerebbe? Vedere una foto di Elena Piastra e Matteo Chiantore, oggi pomeriggio, mentre issano la bandiera palestinese sul balcone del municipio. Tutti e due, con la mano sinistra sul petto e quella destra che fissa lo spillo alla ringhiera, mentre un addetto stampa scatta un bel selfie da postare su Instagram con filtro “impegno civile”.

Magari con una caption tipo: “Noi ci siamo. Sempre dalla parte della pace”. Con cuoricino verde, bandiera arcobaleno, hashtag #solidarietàsempre. Un click, un post, un applauso.

Sarebbe memorabile.  E sarebbe – forse – un’assunzione di responsabilità. Che servirebbe ora, non alla prossima mozione, non alla prossima assemblea, non alla prossima indignazione programmata.

Perché nel tempo che abbiamo perso a decidere se fosse opportuno parlarne, , sotto quelle bombe, qualcun altro ha perso un figlio, una madre, una casa, una vita.

E quando le nostre città non riescono nemmeno a sventolare una bandiera – una, simbolica – per dire che no, non è normale, allora sì, vuol dire che qualcosa, in profondità, si è spento.

E una sinistra che si spegne davanti al dolore, non è più una sinistra.
E, a dirla tutta, non so nemmeno più che cos’è….

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