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Cronaca
03 Giugno 2025 - 01:05
foto archivio
Sovraffollato, lento, ingestibile. Ma soprattutto, profondamente ingiusto. È questa la fotografia del pronto soccorso dell’ospedale di Chivasso, immortalata nella notte tra lunedì e martedì da chi, stremato non solo dal dolore fisico ma da una sanità che discrimina, ha deciso di alzare la voce.
Si chiama Marina Barra, ha 57 anni, è una trapiantata renale. Si è presentata in ospedale con un dolore al piede. Nulla di gravissimo, dice lei stessa, “Mi fa male ma posso anche aspettare”. Ma è ciò che accade dopo a trasformare l’attesa in una lebbra morale che corrode il senso stesso di cosa debba essere un ospedale pubblico.
All'una di notte è ancora lì. Circondata da almeno venti persone nella stessa condizione. Stanchi, dimenticati. Ma quando vede un medico prendere per mano una donna appena arrivata e portarla dentro, subito dopo essere passata dal triage, qualcosa si spezza. “E noi? Siamo figli di un dio minore?”, chiede Marina, la voce tremante per lo sdegno.
Non chiede di saltare la fila, non cerca favoritismi. Chiede parità di trattamento. La risposta sa di schiaffo: “Vada a casa e torni domani mattina”. Questo è ciò che si è sentita dire da chi dovrebbe garantire, almeno, un briciolo di empatia. E non importa che sia una paziente fragile, con un rene trapiantato, a rischio ogni giorno della sua vita. Per l’Asl To4 e per il pronto soccorso di Chivasso, è solo un numero da rinviare.
“Se ho un parente che lavora qui, cosa faccio, passo davanti a tutti? Non funziona così. O almeno, non dovrebbe”, ci ripete al telefono Marina. Ma la realtà urla il contrario. E il sospetto che certi corridoi si aprano solo per chi conosce la porta giusta da bussare è qualcosa che non si può più ignorare.
A quel punto, nella sala d’attesa, si alza un mormorio carico di rabbia. C’è chi sbotta, chi scuote la testa. Un ragazzo dorme con la testa appoggiata al muro, una donna anziana chiede un bicchiere d’acqua che non arriverà mai. Alcuni sono lì da più di sette ore. Tutti in attesa, come in un girone dantesco dove il dolore non basta per essere visti.
E allora Marina si rivolge a noi. Non ai carabinieri, che pure ha minacciato di chiamare. Ma a un giornale, perché almeno resti traccia scritta di ciò che ha vissuto. E lo dice con parole che lasciano il segno: “Se vale la regola, deve valere per tutti. Altrimenti non chiamatelo più pronto soccorso. Chiamatelo passaggio a livello, con sbarre che si alzano solo per qualcuno”.
Questa non è solo una denuncia. È il grido di chi si sente abbandonato. Di chi non trova più, nello Stato, nello Stato sociale, alcun rifugio.
Perché quello che accade al pronto soccorso di Chivasso non è un caso isolato. È il frutto amaro di anni di tagli, disorganizzazione e indifferenza, in un sistema sanitario nazionale che ha smesso di prendersi cura. Un sistema che cura chi può pagare, ignora chi non ha voce, si dimentica dei più fragili.
I medici e gli infermieri, spesso pochi, spesso sotto stress, spesso non hanno colpa in un sistema che si barcamena tra fondi insufficienti, organici ridotti all’osso, e procedure sempre più lontane dai bisogni reali delle persone.
Foto archivio
E chi paga tutto questo? Gli anziani soli, che non hanno figli a chiamare per accelerare una visita. Le persone fragili, che finiscono in fondo alla lista se non sanno come farsi notare. Le madri e i padri di famiglia, che rinunciano a curarsi perché aspettare 8 ore al pronto soccorso non è compatibile con un turno di lavoro. I poveri, i disoccupati, chi ha perso fiducia e ha smesso di cercare aiuto.
Quella che un tempo era la nostra sanità pubblica, universale, equa, è oggi diventata una lotteria crudele, dove vince chi ha santi in paradiso, o almeno un amico al centralino.
Marina, come tanti altri, non chiede miracoli. Chiede rispetto, ascolto, dignità. E invece, questa notte al pronto soccorso di Chivasso, ha trovato solo muri, silenzi, sguardi voltati altrove.
Chi ha responsabilità, all’Asl To4 e nei vertici regionali, dovrebbe sedersi per una notte intera accanto a quelle venti persone in attesa. Dovrebbe guardare negli occhi una donna trapiantata a cui si dice “torni domani”, mentre davanti a lei scorrono scorciatoie di cui nessuno vuole parlare.
Perché la vera emergenza non è nei codici del triage, ma in un sistema che ha smesso di avere un cuore.
E mentre i turni si allungano e i malumori si moltiplicano, la sanità pubblica muore lentamente, un paziente alla volta. E con essa, muore anche la fiducia dei cittadini in uno Stato che doveva proteggerli. Tutti. Non solo alcuni.
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