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Torino, 2 giugno: parata e protesta. Due piazze, due Italie che non si parlano

Mentre sfilano le divise in piazza Castello, un gruppo di antimilitaristi si incatena. Potere al Popolo: “Contro la Repubblica del genocidio e degli 800 miliardi in armi”

Contestazioni e celebrazioni: la Festa della Repubblica a Torino tra applausi e dissenso

Contestazioni e celebrazioni: la Festa della Repubblica a Torino tra applausi e dissenso

Il 2 giugno torinese è stato tutto fuorché una giornata univoca. Da una parte la cerimonia istituzionale, con il suo consueto repertorio di bandiere, inni e reparti in marcia. Dall’altra, la piazza della protesta, dove slogan e catene hanno preso il posto degli applausi. Due celebrazioni parallele e inconciliabili, una consacrata alla Repubblica così com'è, l’altra ostile a ciò che quella Repubblica è diventata.

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A innescare la miccia è stato un piccolo corteo partito da piazza Palazzo di Città e promosso da realtà antagoniste e antimilitariste, tra cui Potere al Popolo. Direzione: piazza Castello, dove nel frattempo erano in corso le celebrazioni ufficiali con tanto di parata delle Forze Armate. In testa al corteo, uno striscione inequivocabile: “Contro tutti gli eserciti per un mondo senza frontiere”. Un messaggio che non lascia spazio a fraintendimenti e che condensa una posizione di rottura totale con la narrazione dominante del 2 giugno.

Alcuni attivisti si sono incatenati proprio durante la cerimonia dell’alzabandiera. Un gesto di disobbedienza simbolica che ha attirato l’attenzione della DIGOS, intervenuta per rimuovere i manifestanti e impedire l’installazione di tende. Ma nonostante i tentativi di blocco, il corteo ha raggiunto piazza Castello. E lì ha piantato il suo dissenso.

Nel primo pomeriggio è arrivata la nota ufficiale di Potere al Popolo, che ha rilanciato l’appello per il presidio delle 17, in occasione dell’ammainabandiera:
“Questa mattina abbiamo contestato la vergognosa cerimonia delle Forze Armate. Da anni il 2 giugno è trasformato in una celebrazione militarista e guerrafondaia. Saremo in piazza fino a sera, al fianco delle persone incatenate. Contro la Repubblica del genocidio e del riarmo. Contro gli 800 miliardi spesi in armi mentre tagliano la spesa sociale!”

Lo scontro, però, non è solo ideologico. È visivo, acustico, fisico. Da una parte i cittadini che applaudono ogni reparto militare in uniforme. Dall’altra chi fischia, urla e contesta. Per l’assessore regionale Maurizio Marrone (Fratelli d’Italia), non ci sono dubbi su quale sia la piazza che conta:
“È la prima volta che vedo un applauso unanime per ogni singolo plotone. Sono soddisfazioni”, ha commentato con enfasi, liquidando le voci di dissenso come “sparuti schiamazzi”.

Ma la contrapposizione è più profonda di quanto una dichiarazione possa archiviare. Non si tratta solo di numeri. È questione di senso. Perché il 2 giugno, nel suo rituale annuale, porta con sé una domanda inevasa: che Repubblica stiamo celebrando?

C’è chi la vede come baluardo di pace e democrazia. E chi, come i manifestanti in piazza Castello, ne denuncia il volto armato, il riarmo accelerato, le complicità nei conflitti internazionali, le missioni all’estero, i fondi destinati all’industria bellica mentre si taglia sulla scuola, sulla sanità, sull’assistenza.

Il presidio di oggi, che anticipa la manifestazione nazionale a Roma in piazza Vittorio contro guerra e riarmo, è stato tutto tranne che un semplice disturbo. È stato il sintomo evidente di una frattura. Una spaccatura che attraversa la società, la memoria collettiva, il significato stesso della parola “Repubblica”.

Due piazze, due linguaggi, due Italie. Entrambe reali. Eppure sempre più lontane.

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