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Costume e società
01 Giugno 2025 - 01:33
Quando Vasco Rossi sale sul palco, il tempo si ferma. E Torino, questa sera, si è lasciata attraversare da qualcosa che va ben oltre un concerto. È stato un esperimento emotivo collettivo. Una seduta pubblica di terapia. Cinquantamila persone strette dentro uno stadio a cantare parole che sanno a memoria non per abitudine, ma per necessità.
Non era un evento. Era un bisogno.
In una città che ogni giorno si tiene in equilibrio tra orgoglio e fatica, tra ambizioni metropolitane e malinconia industriale, il Komandante ha portato sul palco il solo linguaggio capace di superare le divisioni: quello della sopravvivenza. Perché le sue canzoni non si ascoltano: si attraversano.
E da decenni, sono la colonna sonora di chi resiste. Di chi inciampa. Di chi si rialza senza clamore.
L’ingresso con Vita Spericolata ha avuto la forza di una dichiarazione politica. Nessuna nostalgia, nessuna posa da rocker d’altri tempi. Solo la cruda consapevolezza che, oggi più che mai, vivere è un atto di coraggio. E se l’Italia è stanca, fragile, piena di disillusione, Vasco è ancora capace di fare da specchio. Uno specchio graffiato, certo, ma sincero.
La scaletta ha mescolato con intelligenza l’atteso e l’imprevisto. I grandi classici – C’è chi dice no, Senza parole, Gli spari sopra, Rewind – si sono alternati a perle rare che hanno sorpreso anche i più devoti: Valium, Vivere non è facile, Eh… già. Nessun compiacimento. Nessuna retorica. Solo verità. E ritmo.
E quando ha intonato Se ti potessi dire, lo stadio è diventato un luogo di ascolto. Di ascolto vero. Un silenzio pieno di significato. Un popolo muto davanti a una confessione che è anche la sua.
Nessuna parola di troppo. Nessun proclama. Solo un momento, a metà serata, in cui Vasco ha detto una cosa sola, secca, brutale, necessaria:
“Resistete.”
E tanto è bastato. Perché in quella parola ci stavano dentro tutte le fratture, le salite, i dolori e i sogni trattenuti. Ci stava il precariato, la sanità che non funziona, le bollette, le delusioni, il disincanto. Eppure anche la bellezza ostinata di esserci. Di non mollare.
Il finale, come sempre, è stato affidato a Albachiara. Ma sarebbe riduttivo chiamarlo “finale”. È stato un rito. Una liturgia senza religione. Le luci basse, le mani al cielo, le voci impastate dalla stanchezza e dall’emozione. Non c’era Vasco, non c’era il pubblico. C’era una sola entità, viva, vibrante, stonata, irriducibile.
Quando le luci si sono riaccese, nessuno aveva voglia di andare via. Alcuni restavano fermi nei corridoi. Altri sedevano a terra, spossati. C’era chi piangeva. Chi rideva. Chi stringeva la mano a uno sconosciuto. Le uscite erano lente, silenziose. Come se tutti avessero capito che, là fuori, ricominciava la realtà. Ma per due ore, la realtà era stata sospesa.
E forse è proprio questo, oggi, che rende un concerto di Vasco Rossi qualcosa di unico. Non l’effetto scenico. Non il volume. Ma il fatto che, almeno per una sera, in un Paese sempre più frammentato, tutti parlano la stessa lingua.
La lingua di chi ce l’ha fatta. Di chi ci sta provando. Di chi non vuole più sentirsi solo.
E in fondo, non è questo il senso della musica? Dire ciò che altrimenti non troveremmo mai il coraggio di pronunciare?
A Torino, stasera, è successo. È successo davvero.
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