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“Ivreaè”: il nuovo brand visivo del Comune. Ti piace? Funzionerà davvero?

Presentato il progetto di city branding. Colori, rendering, parole. Intanto, la città attende risposte vere

“Ivreaè”: il nuovo brand visivo del Comune. Ma serve davvero?

Ivrea cambia immagine. O, almeno, ci prova. Si chiama “Ivreaè” il nuovo progetto di city branding presentato dal sindaco Matteo Chiantore e curato internamente dall’Ufficio Comunicazione del Comune. Un logo, una palette cromatica, qualche rendering grafico e un insieme di parole chiave messe in fila per tentare di raccontare, in forma visiva, la complessità di una città con oltre duemila anni di storia. Un’operazione che punta a costruire un’identità condivisa e a rilanciare l’attrattività turistica del territorio, soprattutto dopo l’ingresso di Ivrea nel novero dei patrimoni Unesco.

Il concetto su cui si è deciso di puntare è quello della “stratificazione”. Non una parola scelta per caso, ma il perno di tutto il progetto. Ivrea viene raccontata come un mosaico di epoche sovrapposte: dall’epoca romana a quella medievale, dall’industria olivettiana fino al Carnevale, passando per l’Anfiteatro Morenico, la Via Francigena, i Cavalli, l’Acqua. Un’elencazione che rischia di suonare più come un bignami turistico che come una visione strategica. Ogni elemento viene trattato come un “capitolo” visivo, e la scelta stilistica – colori morbidi, toni pastello, tratti grafici ispirati alla cultura visiva olivettiana – cerca di tenere insieme l’insieme. Il rischio, però, è che il risultato finale sia un contenitore elegante ma vuoto.

Al centro della nuova identità visiva, un Arancione Pantone, sintesi simbolica dei due colori considerati rappresentativi della città: l’arancione (richiamo al Carnevale) e il rosso porpora. Accanto, ci sono il bianco e altre tonalità “armoniose” che, nelle intenzioni, dovrebbero offrire un’immagine “colorata e pulita”. Anche qui, però, la sensazione è che si sia data priorità all’estetica, mentre i contenuti rischiano di restare al palo.

Durante la conferenza stampa sono stati mostrati alcuni esempi di applicazione pratica del brand: rendering, grafiche, cartellonistica potenziale. Il tutto in attesa di una declinazione reale nei materiali istituzionali, turistici e promozionali. Nulla, però, è stato detto sui costi del progetto, su eventuali campagne di comunicazione correlate, né sull’impatto atteso in termini di afflusso turistico o investimenti.

Tra i presenti, anche Sonia Cambursano, Consigliera della Città Metropolitana con delega al Turismo, che ha evidenziato l’importanza dell’Eporediese come “territorio sfaccettato e ricco di potenzialità”. Anche in questo caso, parole che suonano bene, ma che restano nel vago.

Il Sindaco Chiantore, dal canto suo, ha parlato di Ivrea come “un luogo in cui le differenze si incontrano”, auspicando che questo brand contribuisca a restituire ai cittadini l’orgoglio di vivere in un posto “capace di offrire esperienze autentiche e una qualità di vita straordinaria”. Ma la qualità della vita non si misura con i loghi, e gli eporediesi lo sanno bene: tra problemi di trasporti, degrado urbano, servizi da migliorare e un centro storico in sofferenza, non è un’immagine colorata a cambiare la percezione quotidiana della città.

Il progetto “Ivreaè” nasce con l’ambizione di ridisegnare il volto della città, ma la domanda resta: serve davvero un brand, quando mancano politiche culturali incisive, interventi strutturali e visioni a lungo termine? La comunicazione è importante, certo, ma non può sostituire le scelte amministrative. Una città può anche raccontarsi bene, ma se non funziona nella realtà, nessun logo potrà salvarla.

City Branding: quando una città diventa marchio
I casi (riusciti e dimenticati) in Italia e nel mondo

In un tempo in cui le città competono non solo per turisti e investimenti, ma anche per attenzione e riconoscibilità, il city branding è diventato molto più di un esercizio grafico. È una strategia. Una dichiarazione d’identità. Un tentativo – a volte riuscito, a volte no – di raccontare un luogo attraverso un’immagine, uno slogan, un logo. Anche in Italia, sempre più Comuni hanno scelto di imboccare questa strada. Ma con esiti molto diversi.

Nel 2012, Bologna ha fatto scuola. Con “È Bologna”, ha lanciato un marchio modulare, capace di abbinarsi a ogni aspetto della città: “Tortellini è Bologna”, “Motor Show è Bologna”, “Jazz è Bologna”. Il progetto, curato dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana, ha avuto l’ambizione di trasformare la città in una rete di significati, facendo leva su una forte partecipazione pubblica e una comunicazione visivamente potente. Il risultato? Un’identità flessibile e riconoscibile, che ha fatto scuola.

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Torino, dal canto suo, ha intrapreso un percorso simile, affidando a un partner professionale – selezionato con gara europea – la costruzione di una strategia integrata. L’obiettivo: presentarsi come città dinamica, attrattiva, e valorizzare le unicità del territorio, anche in chiave turistica e imprenditoriale. Il branding, in questo caso, è parte di un disegno più ampio che punta a rafforzare il ruolo di Torino come città europea della cultura e dell’innovazione.

Parma ha colto l’occasione della nomina a Capitale Italiana della Cultura 2020 per ridefinire la propria immagine. Con il supporto dello studio Edenspiekermann, ha costruito un sistema visivo coerente, con un logo moderno e riconoscibile. L’identità di Parma è stata raccontata attraverso una comunicazione elegante e incisiva, capace di connettere tradizione e contemporaneità.

Anche Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, ha sfruttato il city branding per proiettare la sua immagine oltre i confini nazionali. Il claim “Open Future”, accompagnato da un logo geometrico firmato Ettore Concetti, ha sintetizzato l’idea di una città antica ma proiettata verso il futuro. Una narrazione efficace che ha fatto il giro d’Europa.

Poi c’è Sanremo, che ha costruito tutto il proprio immaginario intorno al Festival della Canzone Italiana. Qui, più che un progetto di city branding “costruito a tavolino”, si è trattato di saper capitalizzare un patrimonio simbolico già esistente. Il risultato è una città che – nel bene e nel male – è ormai sinonimo di musica e spettacolo.

Infine Taranto, che rientra tra le 31 città premiate con il bando "Italia City Branding", promosso dal Governo. Un’occasione per rilanciare l’immagine di una città ferita ma ricca di potenzialità, puntando su cultura, industria creativa e rigenerazione urbana.

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E nel mondo? A guidare il movimento c’è New York, che già negli anni ’70, in piena crisi economica, lanciava il celeberrimo “I ❤ NY”, ideato da Milton Glaser. Un logo semplice, efficace, immortale. Capace di raccontare il riscatto di una metropoli in difficoltà.

Subito dopo, il caso più studiato è quello di Amsterdam con “I Amsterdam”. Lanciato nel 2004, il logo è stato posizionato in punti strategici e replicato ovunque, diventando parte integrante dell’esperienza turistica e cittadina.

Melbourne, con la sua “M” modulare, ha saputo costruire un’identità visiva contemporanea e dinamica. Berlino ha puntato sull’inclusione, con il claim “be Berlin”, raccontando una capitale giovane e multiculturale.

Lione – non Parigi – è diventata simbolo del city branding francese con “OnlyLyon”, un marchio ben strutturato, sostenuto da reti di ambasciatori nel mondo. Las Vegas, con il provocatorio “What Happens Here, Stays Here”, ha trasformato un luogo di eccessi in una macchina da marketing. Singapore, con “Passion Made Possible”, ha fatto della visione economica e tecnologica il cuore del proprio brand.

E poi ci sono le strategie più istituzionali: Londra ha affidato il branding alla società “London & Partners”, mentre Helsinki ha costruito una piattaforma partecipata e trasparente, accessibile a tutti i cittadini. Infine Cape Town, ha puntato su multiculturalismo e paesaggio.

Ma non tutte le operazioni hanno avuto successo. Alcuni progetti, come quello di Adelaide (Australia), sono stati stroncati da critiche e polemiche, nonostante milioni spesi. Il tentativo di modernizzare il nome di Bromyard (UK), invertendo la lettera “D”, si è trasformato in una parodia virale. Newington, sempre nel Regno Unito, ha visto il suo rebranding naufragare per l’assenza di coinvolgimento popolare e per una grafica poco convincente.

Il marchio delle città: identità o illusione?

C’è un momento, nella vita di ogni amministrazione locale, in cui qualcuno propone un city branding. E in quel momento, solitamente, cala il silenzio. Perché “city branding” suona bene. È internazionale. È moderno. Fa pensare che si stia facendo qualcosa di grande. Di strategico. Di strutturato. Finalmente, anche noi come Amsterdam, come New York, come Melbourne. Ma è proprio qui che comincia l’equivoco.

Il city branding, nel migliore dei mondi possibili, dovrebbe essere la sintesi di un’identità. Un racconto condiviso. Una visione che nasce dal basso e si eleva fino a diventare immagine, segno, stile. Dovrebbe restituire alle città una voce distinta, riconoscibile, coerente con ciò che sono e con ciò che vogliono diventare. E invece, troppo spesso, si riduce a un logo. A una campagna stampa. A un colore Pantone. A una pagina Instagram gestita da qualche agenzia in cerca di portfolio.

Chi fa branding sa bene che un marchio non nasce da un brainstorming. Un marchio nasce da una verità. Da qualcosa che c’è, o che almeno si sta cercando con sincerità. È lì che il city branding ha senso. Quando prende sul serio la città. Quando non la camuffa, ma la mostra con onestà, con le sue bellezze e le sue contraddizioni. Quando serve a rafforzareuna traiettoria, non a inventarne una di comodo.

E allora sì, “I Amsterdam” funziona perché Amsterdam è davvero inclusiva, multiculturale, pulsante. “I ❤ NY” ha avuto successo perché New York, nel suo momento più buio, aveva bisogno di ritrovare un legame affettivo con i suoi abitanti. “Be Berlin” è efficace perché è diretto, come la città che rappresenta. “È Bologna” funziona perché ha saputo giocare con l’identità linguistica, culturale e popolare di un luogo che non ha bisogno di troppe spiegazioni.

In Italia, però, il rischio è sempre dietro l’angolo: ridurre tutto a un esercizio di grafica. A una conferenza stampa con i rendering. A una manciata di frasi da brochure. Si pensa che basti raccontarsi bene per essere migliori. Che basti colorarsi per sembrare vivi. E intanto, i problemi reali delle città restano lì: quartieri abbandonati, trasporti che non funzionano, giovani che se ne vanno, turismo che non decolla. Il brand non risolve. Al massimo accompagna. Ma se dietro non c’è un disegno, una strategia, un progetto politico e sociale, quel marchio diventa una maschera. E come tutte le maschere, prima o poi si sfalda.

Il city branding, insomma, può funzionare. Ma solo quando nasce da un’identità autentica, coinvolge la comunità, si inserisce in un disegno più ampio e si traduce in azioni concrete. Altrimenti rischia di restare un’operazione estetica. Un esercizio di stile. O peggio, un’occasione persa. Anzi, una presa in giro. Perché nulla è più pericoloso, oggi, che promettere cambiamento… senza cambiare nulla davvero.

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