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Qualcosa di sinistra

Stop al terzo mandato per i presidenti di Regione? L'ombra del gattopardismo incombe

Una sentenza della Corte costituzionale evidenzia l'illegittimità della legge campana sui mandati dei presidenti regionali, riflettendo un dibattito più ampio sui limiti di mandato e il rispetto dei principi democratici in Italia

Stop al terzo mandato per i presidenti di Regione? L'ombra del gattopardismo incombe

Antonio De Caro

Ha fatto un po’ di rumore la sentenza con cui la Corte costituzionale dichiara illegittima la legge della Campania che, fraintendendo il concetto di autonomia riconosciuta alle Regioni, viola la legge del 2004, attuativa dell’articolo 122 della Costituzione in merito al cosiddetto divieto del terzo mandato consecutivo (possibilità di ricandidarsi per tre volte) del presidente della giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto. Insomma, tutto sarebbe figlio della famigerata riforma (il diavolo se la porti!) del Titolo V della Costituzione, una riscrittura che ha creato più danni che altro.

de luca

Il Governatore della Campania Vincenzo De Luca

La questione non è nuova. La regola che limita a due sole volte consecutive il mandato del sindaco ha avuto diverse deroghe: nel 2014 si è superato tale limite (fermandosi a tre) per i Comuni con meno di tremila abitanti, estendendo la norma, nel 2022, a quelli con meno di cinquemila. Da ultimo, lo scorso anno, per l’insistenza dell’Anci (associazione dei Comuni), è stato eliminato il vincolo dei due mandati per i sindaci di tutti i centri con meno di 15 mila abitanti.

All’indomani di questo provvedimento, il presidente dell’Anci, il pidino Antonio Decaro, ora transitato al Parlamento europeo, rivolse ai parlamentari italiani una perorazione del seguente tenore: «a questo punto appare ingiusto, incomprensibile, illogico che rimanga una disparità di trattamento a danno degli altri sindaci, quelli dei Comuni con oltre 15 mila abitanti, una vera e propria discriminazione che riguarda soli 730 su 7896 Comuni italiani». Sic!

Nel 1993, allorché s’introdusse l’elezione diretta del sindaco, il Parlamento pose questo limite temporale, trent’anni dopo vanificato nei fatti. Nel 2008, il Consiglio di Stato scrisse che, in dottrina, tale limite rappresenta il «punto di equilibrio tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva, con effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive, suscettibili di essere alterate da rendite di posizione».

La forma di governo comunale è poi divenuta l’archetipo su cui è stata modellata anche quella delle Regioni a statuto ordinario, per effetto di una legge costituzionale del 1999, e, in parte, delle Regioni a statuto speciale.

La stessa Corte, in una sentenza del 2023 a proposito delle modifiche alla legge elettorale della Sardegna, dichiarata incostituzionale, sottolineava che «la previsione del numero massimo dei mandati consecutivi […] riflette una scelta normativa idonea a inverare e garantire ulteriori fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali».

Tutti buoni argomenti che, ahimè, niente poco possono contro il gattopardismo di gran parte della nostra classe dirigente, la quale, priva del benché minimo patriottismo costituzionale, punta a massimizzare i vantaggi dal logoramento della nostra Carta.

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