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“Mi dimetto, la Consulta è diventata muta”. Scossone a Ivrea

Edwin Marian Badea lascia il ruolo di presidente con una lettera durissima: “Nessuna voce su pace e diritti. Io non ci sto”

Edwin Badea

Edwin Badea

C’è un tempo per fare, un tempo per resistere, e un tempo — spesso il più difficile — per fermarsi. Lo ha fatto Edwin Marian Badea, presidente della Consulta Comunale degli Stranieri di Ivrea, che nella giornata del 19 maggio ha rassegnato le sue dimissioni irrevocabili. Con un gesto che ha il sapore della frattura profonda, ma anche della coerenza, della consapevolezza, dell’onestà verso se stessi prima ancora che verso gli altri.

“Mi sono dimesso perché devo capire”, ci dice al telefono, con la voce bassa ma ferma. “Ci sono dei motivi. Scelte pensate, sofferte. Dopo una riflessione profonda. Dopo che mi sono confrontato con i fatti”. E proprio da quei fatti parte la sua decisione, nero su bianco in una lettera che ha il sapore dell’ultima pagina scritta, ma anche del primo capitolo di una storia ancora da raccontare. La pubblichiamo integralmente, perché ogni parola è stata scelta, pesata, voluta:

“Con la presente - scrive - comunico formalmente le mie dimissioni irrevocabili dal ruolo di presidente e membro della Consulta Comunale Stranieri di Ivrea. Questa decisione nasce da una riflessione profonda, maturata in seguito ad un processo di confronto con i fatti e con il senso stesso dell’impegno che, fino ad oggi, ho cercato di portare avanti con serietà e dedizione.
Nel corso degli ultimi mesi, ho constatato con crescente dispiacere come la Consulta, pur essendo nata con l’intento di rappresentare e tutelare i diritti e la dignità della comunità straniera residente sul territorio, abbia progressivamente smarrito la capacità di assolvere pienamente a questo compito....".

E poi ancora: "La difficoltà ad assumere posizione pubbliche chiare, anche su temi fondamentali come la lotta allo stigma e il diritto alla pace, ha ridotto in modo significativo la sua funzione di rappresentatività. È proprio questa mancanza di voce e di reattività, anche davanti a sollecitazioni trasparenti e rispettose, a segnare oggi il mio limite. Non posso più riconoscermi in un organo che non riesce – o non vuole – far sentire con forza e chiarezza la voce della Comunità che dovrebbe rappresentare.
Rimango convinto che lo strumento della Consulta potrebbe ancora essere utile e necessario, ma a condizione che sia realmente autonomo, plurale e coraggioso. Le mie dimissioni non vogliono essere una rinuncia alla partecipazione, ma un atto di coerenza e di rispetto per ciò che dovrebbe significare rappresentare davvero una comunità. Ringrazio chi, in questo periodo, ha condiviso un tratto di questo percorso con onestà e convinzione...".

Parole dure, ma dette senza rancore. Il tono è pacato, ma non per questo meno tagliente. Edwin Marian Badea non grida. Non alza la voce. Ma con la forza di chi ha creduto davvero nella possibilità di costruire un ponte tra mondi — tra chi è nato qui e chi ci è arrivato per scelta, per bisogno, per destino — oggi decide di fare un passo indietro. E proprio questo rende il gesto ancora più potente.

La Consulta Comunale degli Stranieri, istituita nel 2014, è nata con un obiettivo tanto ambizioso quanto necessario: dare rappresentanza politica e sociale alle comunità straniere che vivono e lavorano a Ivrea. Non un’appendice decorativa, non una vetrina folcloristica: un organo consultivo, propositivo, rappresentativo, che riunisce al suo interno non solo membri delle comunità straniere residenti, ma anche consiglieri comunali di maggioranza e opposizione, associazioni, sindacati, enti scolastici, gruppi religiosi, volontariato e — figura chiave — il Consigliere Straniero Aggiunto. Un laboratorio di cittadinanza attiva, di ascolto, di progettualità.

Nel novembre 2023, proprio Edwin Badea ne era diventato presidente. Insieme a lui, Maria Janga (associazione Dorul) come vicepresidente. Un direttivo composito, inclusivo: dalla comunità albanese a quella magrebina, passando per realtà come l’associazione volontari penitenziari “Tino Beiletti” o il consorzio In.Re.Te. Un mosaico di storie, voci, percorsi.

Eppure, qualcosa si è inceppato. 

“La Consulta ha smarrito la voce”, ci ripete. “Ci sono battaglie che vanno combattute. Non si può restare fermi quando si parla di stigma, di pace, di diritti. Non si può annacquare tutto nel timore di esporsi. Chi rappresenta, ha il dovere di parlare. Se non lo fa, tradisce il suo mandato”.

Ed è proprio questa assenza di voce, questa reticenza al confronto, che per Badea rappresenta il punto di rottura. “Non posso più riconoscermi in un organo che non vuole o non sa parlare a nome della comunità”, scrive. E non c’è amarezza, ma disillusione. La sensazione di aver tentato, fino in fondo, ma che ora non si possa più aspettare.

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La sua non è una fuga, anzi. È un modo per restare, ma in un altro modo. “Le mie dimissioni non sono una rinuncia alla partecipazione”, scrive, “ma un atto di coerenza”. Come a dire: continuo a esserci, ma altrove, con altre modalità. Perché la voce, se non riesce a passare attraverso i canali ufficiali, trova altri microfoni, altri modi, altri spazi.

E ora? Resta il vuoto. Resta la domanda. Chi raccoglierà il testimone? Chi avrà il coraggio di dire ciò che deve essere detto, anche quando è scomodo?

Dentro la Consulta restano i consiglieri comunali Francesco Giglio e Habib Benoukaiss per la maggioranza, Andrea Cantoni e Paolo Noascone per la minoranza, e la consigliera straniera aggiunta Manal Abboudi. Ma resta soprattutto una sfida: quella di non trasformare la Consulta in una scatola vuota. Di non lasciarla annegare nella burocrazia, nel linguaggio neutro, nel fare finta che vada tutto bene. Perché il rischio, adesso, è reale.

Le dimissioni di Edwin Marian Badea non sono solo un fatto interno. Sono una chiamata. Un appello. Un promemoria. Che le comunità straniere esistono, vivono, partecipano. E che hanno bisogno — anzi, diritto — di essere rappresentate con voce, autonomia, coraggio.

Altrimenti, come ha scritto lui stesso, “non ha senso”.

Se non puoi più parlare, allora è giusto andarsene

Ci vuole coraggio per dire basta. Per non accettare più il silenzio. Per riconoscere che la coerenza, a volte, passa attraverso un gesto difficile ma necessario: quello di fare un passo indietro per non essere complice.
Edwin Marian Badea questo passo l’ha fatto. E non per calcolo, non per strategia, non per stanchezza. Ma perché la dignità ha un limite, e quel limite è stato superato.

La sua lettera è un atto politico altissimo. È il grido pacato ma potentissimo di chi ha provato a costruire, a rappresentare, a fare comunità. E si è trovato di fronte un muro fatto non tanto di ostilità, quanto di qualcosa di peggiore: l’indifferenza, la prudenza codarda, il compromesso sterile, la paura di dire le cose come stanno. Il silenzio, quando si parla di diritti, è sempre colpevole.

“La Consulta ha smarrito la voce”, scrive Badea. E in questa frase c’è tutta la tragedia delle rappresentanze che si spengono lentamente, senza che nessuno si prenda la responsabilità di riaccendere la luce. Non una parola sulla pace, nulla contro lo stigma, niente che infastidisca troppo le istituzioni, o turbi il quieto vivere della politica benpensante.
E allora, sì: meglio dimettersi che diventare una comparsa. Meglio farsi da parte che fare da foglia di fico a un organismo che, se non lotta per ciò che è giusto, smette di avere senso.

Questo gesto non è una fuga. È un atto di resistenza. Un rifiuto della finzione. Un monito a tutti quelli che siedono ai tavoli istituzionali dimenticando il motivo per cui ci sono arrivati: dare voce a chi non ne ha.
La Consulta è stata pensata — e voluta — come luogo di proposta, non come spazio per tacere. Era nata per rappresentare i volti e le storie di una città che cambia, per costruire ponti, non per conservarne le rovine.

Edwin Badea non si è tirato indietro. Ha provato a fare la differenza. Lo ha fatto nel silenzio dei corridoi, nella fatica quotidiana, nell’ascolto delle comunità. E quando ha capito che quel cammino non portava più da nessuna parte, ha scelto la verità.
Non si è aggrappato a una carica. Non ha cercato alibi. Non ha taciuto. Ha detto: io così non ci sto. E l’ha fatto con fermezza, eleganza, lucidità.

Dovremmo ringraziarlo. Non solo per quello che ha fatto finora, ma per quello che ci ricorda con le sue parole: che rappresentare qualcuno significa esporsi, scegliere, rischiare. E che se non si è più liberi di farlo, allora l’unica cosa giusta è rifiutare il ruolo.

Chi rimane nella Consulta, chi siede in Comune, l'assessora Gabriella Colosso chi si dice “impegnata” su questi temi, che promuove un protocollo al giorno, dovrebbe leggere e rileggere quella lettera. Dovrebbe sentire il peso di quella coerenza e chiedersi: cosa sto facendo io? A cosa sto servendo davvero?

Perché quando una voce onesta se ne va, resta un vuoto. E se non lo si riempie con il coraggio, sarà il silenzio a prendere il suo posto.

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Commenti all'articolo

  • Alessia

    20 Maggio 2025 - 19:58

    Complimenti per la verticalità, Edwin! Per lo spirito civico e per il coraggio nella lotta per i diritti delle minoranze e nel tentativo di aiutarle a integrarsi nella società italiana.

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