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Pagine di storia
17 Maggio 2025 - 16:42
“Nakba”, in arabo, vuol dire catastrofe, e non è una parola scelta a caso. È un grido, una ferita, una cicatrice che non si rimargina. Per i palestinesi, quel termine non è solo una data da commemorare ogni 15 maggio. È un’eredità che si tramanda nel silenzio delle case vuote, nel vento che soffia sulle macerie dei villaggi cancellati, nei racconti sussurrati da nonni che non hanno più visto la loro terra.
Era il 1948. Il mondo applaudiva la nascita di Israele, accecato dal bisogno di riscatto dopo la Shoah, chiudendo gli occhi su ciò che stava accadendo dall’altra parte del Mediterraneo. Più di 700.000 uomini, donne, bambini palestinesifurono costretti ad abbandonare le loro case. Alcuni fuggirono per paura. Altri furono espulsi con la forza. Le loro chiavi ancora oggi pendono da chiodi piantati nei muri di rifugi umidi, in campi profughi polverosi, nei salotti delle case della diaspora. Le tengono lì come prova, come promemoria di un ritorno negato.
Il villaggio di Deir Yassin fu solo uno dei tanti cancellati con le armi e con il terrore. Il 9 aprile 1948, oltre 100 civili vennero massacrati. Donne incinte, bambini, anziani. Il messaggio era chiaro: chi resta, muore. Quel giorno, l’eco della violenza fece tremare le finestre dei villaggi vicini. Nessuno si sentiva più al sicuro. Così iniziò l’esodo, quella fuga che doveva essere temporanea, e che è diventata una condanna senza fine.
Quando la guerra finì, Israele si era preso più del 78% della Palestina storica, ben oltre quanto previsto dal piano dell’ONU. I profughi non poterono tornare. Le loro case furono assegnate ad altri. I loro campi coltivati bruciati o espropriati. Più di 400 villaggi palestinesi furono distrutti. E mentre il mondo applaudiva il miracolo israeliano, un altro popolo si ritrovava a vivere l’anti-miracolo della cancellazione.
Chi è rifugiato, lo resta per sempre. Non bastano le tende. Non bastano le scuole dell’UNRWA. Non bastano le risoluzioni delle Nazioni Unite. La risoluzione 194, che prometteva il diritto al ritorno o un risarcimento, è rimasta lettera morta. Ogni volta che i palestinesi la ricordano, vengono accusati di minacciare l’esistenza dello Stato ebraico. Ma cosa c’è di minaccioso, nel voler tornare nella propria casa?
La Nakba non è finita. È un processo che continua ogni giorno. È la casa demolita in Cisgiordania perché “costruita senza permesso”. È il blocco a Gaza. È l’assedio. È il checkpoint. È la carta d’identità blu o arancione che decide dove puoi camminare, dove puoi amare, dove puoi respirare. È l’umiliazione quotidiana. È la negazione di uno Stato, di un passaporto, di un presente.
Chi ha vissuto la Nakba non ha mai smesso di raccontarla. Le fotografie sbiadite, i documenti custoditi come reliquie, i racconti di zii e cugini mai più visti: tutto grida “Noi eravamo lì. Noi c’eravamo”. C’era un albero di fico nel cortile. C’era un pozzo. Una strada sterrata. Un profumo di pane. C’era una scuola. Una moschea. Un muretto su cui ci si sedeva a raccontarsi le giornate. Poi non c’è stato più nulla.
Israele, per decenni, ha cercato di cancellare la memoria. Di quei villaggi sono rimasti solo i nomi, tramandati come litanie: Iqrit, Lubya, Lifta, Saffuriyya, Tantura... In molti casi, furono piantati alberi, costruiti parchi, cambiati i nomi ai luoghi. Ma la terra ricorda, anche quando gli uomini vogliono dimenticare.
I figli dei profughi sono diventati padri. I nipoti sono diventati giovani arrabbiati, pieni di domande e senza risposte.Vivono nei campi profughi in Libano, in Siria, in Giordania, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza. Oppure in Europa, in America, senza una casa vera. Senza diritto al ritorno. Con la chiave appesa a un muro come unico testamento.
Raccontare la Nakba oggi è un atto di resistenza. In molte scuole israeliane non se ne parla. In alcune università si viene sospesi per aver commemorato. Ma per i palestinesi, la memoria non è un lusso. È tutto quello che hanno. È ciò che li tiene vivi.
Ogni 15 maggio, mentre altrove si festeggia, loro piangono. Alcuni in silenzio. Altri sfilano con i nomi dei villaggi sulle magliette. Altri ancora piantano alberi dove un tempo c’erano le loro case. Ogni palestinese è un archivio vivente della Nakba. È il figlio della catastrofe. È il superstite di una cancellazione. È la voce di chi non ha più terra sotto i piedi, ma ha ancora parole per raccontarla.
E finché ci sarà qualcuno che pronuncerà quella parola — Nakba — il diritto alla verità non sarà morto. Anche se il mondo volta lo sguardo. Anche se i potenti firmano accordi sulla pelle dei popoli. Anche se la giustizia tarda.
La Nakba non è il passato. È il presente. È l’identità negata di un popolo intero che non ha mai smesso di dire: io esisto. Io ricordo. Io tornerò.
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