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17 Maggio 2025 - 15:17
"Al lampo delle mine". I minatori della Valchiusella nella galleria del Gottardo
Qualche tempo fa ho letto e poi ascoltato Voci del cuore, dove il maestro Amerigo Vigliermo dirige il Coro Bajolese, spiegando e commentando vari canti popolari. Su uno in particolare, Al lampo delle mine, voglio soffermarmi, perché mi ricorda la storia d’amore dei miei nonni materni Michele e Maddalena, morti ormai da tanti anni, ma sempre vivi nel mio cuore.
Al lampo delle mine
squarciate stan le rocce
bagnate son di gocce
di sangue e di sudor.
Il lavoro in galleria.
Questo canto rievoca la costruzione della galleria del Gottardo dove molti valchiusellesi, soprattutto brossesi, hanno lavorato. La galleria, inaugurata il 23 maggio 1882 dopo dieci anni di pesante lavoro, unisce Airolo in Canton Ticino con Göschenen del Canton Uri, per una lunghezza di 15,003 chilometri, col punto più alto a quota 1151 metri. L’opera venne realizzata da Entreprise du grand tunnel du Gothard, di cui era titolare il ginevrino Louis Favre.
Nevoso San Gottardo
superbo nei trafori
su porti ad alti onori
l’amato patrio suol.
La porta sei di tutti
aperta per chi vuole
splendente sotto il sole
grandioso sarai tu.
Una stampa raffigurante i lavori di costruzione della galleria del Gottardo. La ferrovia fu inaugurata nel 1882. Altri lavori vennero effettuati tra il 1919e il 1924, per l’elettrificazione della linea (collezione Luigi Bovio).
Occhioni luminosi di donna.
Già dalla metà del XIX secolo, il Piemonte desiderava un passaggio attraverso la Svizzera per collegare il proprio porto di Genova con l’Europa centrale senza dover passare sul territorio dell’impero austro-ungarico e in concorrenza con il porto austriaco di Venezia, ma tra le guerre d’Indipendenza italiane e i vari gruppi finanziatori dell’impresa, in contrasto tra loro per motivi economici, l’idea fallì e il progetto non ebbe seguito.
Con la raggiunta unità d’Italia e con l’apertura del canale di Suez (1869) ci si rese conto che il progetto del traforo era molto importante, tant’è vero che lo stesso Carlo Cattaneo (1) si adoperò per promuovere l’iniziativa, sostenendo che l’impresa fosse di tale importanza e di pubblica utilità da richiedere l’intervento dei governi e la sottrazione agli interessi degli speculatori. Stipulato un accordo fra Italia, Svizzera e Germania, l’impresa partì.
Nel traforo si sperimentarono nuove tecniche per velocizzare i lavori, ma la fretta si ripercosse duramente sulle condizioni degli operai utilizzati nella costruzione. I lavori proseguirono anche nei decenni successivi per apportare sempre nuove migliorie.
Come già detto, vi lavoravano molti brossesi, infatti la tradizione voleva che ogni famiglia avesse almeno un componente minatore, e la storia ci ha tramandato che gli abitanti di Brosso andarono minatori ovunque: in Sudafrica, in Egitto, nelle miniere stesse di Brosso e in quelle dell’ex Montecatini, della ex Sclopis e nelle «miniere che appartenevano ai Savoia, dove si estraeva la pirite e da cui si ricavava l’acido solforico o, come dicevano loro, il vetriolo che serviva per la concia delle pelli e per la preparazione delle vernici (…) Ogni volta che partivano da casa portavano con loro gli strumenti musicali, perché,dicevano, era l’unica consolazione che avevano: ritrovarsi di sera nello stesso ambiente famigliare suonando quello che si suonava nel paese di origine» (2).
Proprio in una di queste serate in libertà passate ad Iragna (Canton Ticino), mio nonno, Michele Rosia, di Brosso, conobbe la sua futura sposa, Maddalena Carimatti, ticinese, insieme alle sue due sorelle. L’incontro avvenne nell’aia di una casa privata dove alcuni minatori si erano trovati per far conoscere i canti dei loro paesi rievocanti le famiglie lasciate, le mamme, le spose, i figlioletti; esternando i propri sentimenti, facevano sentire che anche loro avevano un’anima, un cuore che palpitava sotto una dura scorza di uomini temprati da un pesante lavoro.
Raccontava mio nonno Michele di essere stato folgorato da due occhioni luminosi che a poco a poco si erano riempiti di lacrime al sentire canti così struggenti e palpitanti.
La via delle genti
il sogno sei dei forti
ma il sangue dei tuoi morti
non si potrà scordar.
Gettate ad essi un fiore
dei bimbi han lasciato
che invano avran cantato
ritorna mio papà.
Michele e Maddalena.
La vita di questi lavoratori era grama, facevano turni di otto ore in ambienti in cui l’aria era resa irrespirabile dalla scarsa ventilazione e dalle esalazioni delle macchine. Quasi 200 minatori morirono a causa degli incidenti sul cantiere; molti erano gli infortuni. Inoltre l’igiene era pessima, mancavano servizi sanitari e la distribuzione dell’acqua era scarsa.
Una situazione analoga, se non peggiore, c’era anche in Italia: testimonianza reale di come vivevano i minatori in quel periodo, ma pur lamentandosi, continuavano per poter portare a casa qualche lira. L’accumulo della sporcizia e degli escrementi favorì la diffusione di un verme parassita (ancyilostoma duodenale), che procurava forte dimagrimento ed anemia, malattia conosciuta come anemia del Gottardo, o anemia del minatore.
Anno 1921. Maddalena tiene in braccio la piccola figlia Caterina. Dietro, le sorelle Cecilia e Barberina.
A sinistra: anno 1939. Lo zio Giovanni con la sorella Caterina.
A destra: 1949, il giorno della Prima Comunione dell'autrice di queste pagine. Il nonno Michele è sulla destra in piedi.
Mio nonno, che in principio viveva in una baracca ad Airolo (paesino ai piedi del Gottardo), sovente scendeva ad Iragna (paese tra Biasca e Bodio) per incontrare la sua Maddalena, che quando poteva gli offriva i prodotti del suo orto, il formaggio dei suoi animali e le uova delle galline perché il nonno pativa la fame, come i suoi connazionali, in quanto il salario era molto basso: la paga di un operaio specializzato era di circa 4 franchi al giorno e la vita era cara, inoltre gli operai dovevano provvedere all’olio delle lampade che utilizzavano per lo scavo.
In un secondo momento mio nonno si stabilì ad Iragna, la nonna provvedeva anche al lavaggio della sua biancheria e lo curava, perché nel frattempo aveva contratto l’anemia del minatore; solo con premure, pasti ottimi e medicine date sotto la guida di un medico, il nonno a poco a poco si ristabilì e poté riprendere le sue attività viaggiando tutti i giorni da Iragna al Gottardo. Col trascorrere del tempo Michele incominciò ad essere accettato in quella famiglia come uno di casa, rispettato come forte lavoratore e come spasimante della seconda figlia. Finalmente mio nonno chiese ufficialmente la mano di Maddalena a suo padre, che acconsentì, ma la celebrazione delle nozze dovette ancora attendere per una sistemazione adeguata di mio nonno, che terminati i lavori del Gottardo tornò a Brosso, poi si recò a lavorare a Roma e appena possibile tornò ad Iragna a coronare il suo sogno. Portò la nonna alle Balmelle di Vico, dove visse fino al 1951, anno della sua morte. Dal suo matrimonio nacquero due figli: Caterina, mia mamma (mancata nel 2007 e seppellita a Banchette, dove abitava col mio papà Savino dal 1959) e zio Giovanni (mancato nel 2002 e sepolto a Drusacco accanto a sua moglie Letizia).
Le altre due sorelle di mia nonna vissero in Canton Ticino. La più giovane, zia Peppa, ebbe 4 figli, di cui il più giovane, Aurelio, divenne ingegnere e, quasi a prolungare l’attività di zio Michele, contribuì alla realizzazione della galleria stradale del San Gottardo tra gli anni 1970-1980. Tale galleria venne inaugurata il 5 settembre 1980, quando il consigliere federale Hans Hurlimann procedette al taglio del nastro. Lunga 16 chilometri e 918 metri, ebbe il primato di galleria più lunga del mondo fino all’anno Duemila quando in Norvegia venne aperto un tunnel lungo 24 chilometri.
* * *
Ancora oggi i rapporti tra me, mio marito, mio cugino Aurelio e sua moglie Dora continuano ininterrotti, e quelle rare volte che ci ritroviamo, data la nostra età non più verde, saliamo col pensiero al Gottardo ed innalziamo una preghiera in ricordo dei nostri cari.
Note.
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