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CUORGNE'
16 Maggio 2025 - 19:23
Qualche giorno fa, nell’aula dell’Unitre di Cuorgnè, è salito in cattedra, Lorenzo Cena. Ha ccompagnato il pubblico in un viaggio nella psicologia sociale, attraverso tre esperimenti che hanno fatto la storia della disciplina.
Psicologo del lavoro, Cena ha saputo coinvolgere gli ascoltatori con esempi chiari, domande stimolanti e racconti vivaci, stimolando un dialogo aperto: “Non ci sono risposte giuste o sbagliate, la psicologia sociale è una scienza che si costruisce insieme, partendo dalle esperienze e dalle domande”.
La psicologia sociale, ha spiegato il docente, è quella branca della psicologia che si occupa del comportamento umano in contesti collettivi. Studia come pensiamo, agiamo e sentiamo quando siamo in presenza di altri, anche solo immaginandoli. “Individuo e società non sono due cose distinte. L’uno esiste solo in relazione all’altra”. Un’affermazione che trova conferma già in un semplice esercizio mentale: immaginare una persona sola in una stanza. Anche in assenza fisica degli altri, il pensiero di essere osservati, giudicati, valutati condiziona profondamente l’atteggiamento, le azioni, le scelte.
Per comprendere queste dinamiche, la psicologia sociale si avvale del metodo scientifico e di strumenti come l’esperimento: “Situazioni controllate che riproducono la realtà per aiutarci a capire chi siamo davvero”. Ed è proprio attraverso tre celebri esperimenti che Cena ha condotto la sua lezione.
Il primo è quello di Solomon Asch, dedicato al fenomeno del conformismo. Un gruppo di otto persone è invitato a esaminare delle linee stampate su un foglio e identificare quella della stessa lunghezza rispetto a un’altra mostrata in precedenza. Una prova semplicissima, che chiunque riuscirebbe a superare. Ma sette degli otto partecipanti sono complici dello sperimentatore e danno sistematicamente la risposta sbagliata. Solo l’ottavo è all’oscuro dell’inganno. Il risultato? Nel 75% dei casi, anche il soggetto “ingenuo” si adegua al gruppo, pur sapendo che sta sbagliando.
“Perché lo fa?”, domanda il docente. Le risposte possibili sono molte: timore del giudizio, ansia sociale, paura dell’esclusione. Quel che è certo è che l’unanimità ha un potere enorme: basta che uno dei complici rompa lo schema, e il conformismo crolla. “Quando non siamo più soli nel nostro dubbio, possiamo permetterci di essere sinceri”. Cena invita il pubblico a riflettere: “Non è forse capitato anche a voi, nella vita, di dire o fare qualcosa solo per non sentirvi diversi?”
Il secondo esperimento raccontato è ispirato a un fatto di cronaca drammatico: l’omicidio di Kitty Genovese, avvenuto a New York nel 1964, sotto gli occhi di 38 persone che non mossero un dito. Da qui nasce la teoria della diffusione della responsabilità, approfondita negli studi di John Darley e Bibb Latané. Nell’esperimento, alcuni volontari sono invitati a compilare un questionario in una sala d’attesa. Dopo pochi minuti, da sotto la porta comincia a uscire del fumo. Quando i partecipanti sono soli, reagiscono quasi subito. In gruppo, invece, il tempo di reazione si allunga notevolmente. “Tutti vedono il fumo, ma nessuno si muove, aspettando che qualcun altro prenda l’iniziativa”. Il messaggio è chiaro: quando siamo soli ci sentiamo responsabili, ma in gruppo tendiamo a delegare, a sentirci protetti, anche se nessuno ci ha detto che lo siamo davvero.
“Quante volte nella vita non interveniamo per timore del giudizio, per la paura di sbagliare, per l’idea che qualcuno agirà al posto nostro?”, chiede Cena. Un interrogativo che tocca nel profondo e che apre a un breve ma intenso dibattito tra i presenti.
L’ultimo esperimento illustrato, il più inquietante, è quello di Philip Zimbardo, noto come la prigione di Stanford. Negli anni ’70, ventiquattro studenti universitari — selezionati tra centinaia, tutti psicologicamente sani — vengono divisi casualmente in due gruppi: prigionieri e guardie. La simulazione, che doveva durare due settimane, si svolge nei sotterranei dell’università, trasformati in una finta prigione. Le regole sono semplici: nessuna violenza, solo ruoli da interpretare. Ma bastano pochi giorni perché la situazione degeneri.
Le guardie, protette da occhiali da sole e armate di manganelli, iniziano a umiliare i prigionieri, a privarli del sonno, a punirli con isolamento e privazioni. I detenuti, identificati solo da un numero, si ribellano, scioperano, alcuni crollano psicologicamente. Il clima diventa talmente teso che Christina Maslach, psicologa e compagna di Zimbardo, convince il collega a interrompere tutto al sesto giorno. “Il ruolo ha prevalso sull’identità. Gli studenti si sono trasformati in carnefici e vittime, pur restando le stesse persone”, commenta Cena. Il contesto ha fatto esplodere dinamiche di potere, obbedienza cieca, annullamento dell’empatia.
Al termine della conferenza, il docente lascia ai presenti una domanda, semplice e destabilizzante: “Quanto il contesto sociale influenza davvero le nostre scelte? E quanto siamo consapevoli di quello che ci spinge ad agire?”
Una domanda che rimane sospesa nell’aria. E che, come tutti i buoni interrogativi, non pretende una risposta, ma semina dubbi e riflessioni.
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