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Cronaca
13 Maggio 2025 - 00:09
Ladro di biciclette
Non è la prima. E non sarà, purtroppo, nemmeno l’ultima. Ma questa volta qualcosa è scattato. Perché quando Laura Ciochetto, impiegata all’Hotel Rivarolo, ha scritto su Facebook quel suo messaggio – breve, diretto, devastante – “Me l’hanno rubata… sono a pezzi”, è come se avesse aperto una crepa nel silenzio assordante che spesso accompagna queste piccole grandi ingiustizie quotidiane.
Un furto. Una bicicletta. Nulla di stravolgente, nulla che faccia notizia sui telegiornali. Ma nelle pieghe di quella denuncia informale, nel dolore asciutto e dignitoso delle sue parole, c’è tutto. C’è il disagio. C’è la frustrazione. C’è la città.
Il furto è avvenuto nel primo pomeriggio, fuori dal luogo di lavoro di Laura. Una sosta di routine, una bici legata – forse anche ben legata – e poi il nulla. Silenzio. Nessun allarme, nessun testimone. Il vuoto. Un altro mezzo sparito nel nulla, nel cuore di Rivarolo Canavese, a due passi da un albergo frequentato, lungo una strada dove passano decine, centinaia di persone. Eppure niente.
Ma a colpire non è tanto il gesto vile e banale del ladro, quanto ciò che è seguito: una valanga di commenti, di condivisioni, di racconti simili. Gente che ha subito lo stesso. Gente che ci ha rinunciato. Gente che ci ha provato, ma ha perso la fiducia. È bastato il messaggio di Laura per aprire un vaso di Pandora fatto di denunce inevase, di telecamere spente o ignorate, di vigili silenziosi, di indignazione repressa. E di rassegnazione. Tanta, troppa.
Perché ormai è questa la sensazione che si respira a Rivarolo e in tante alter ciittà italiane. Che non valga più nemmeno la pena sperarci. Che anche quando ci sono le telecamere, anche quando si denuncia subito, anche quando si sa dove cercare… non succede nulla. Una città che si scopre indifesa, dove rubare una bicicletta è diventato normale. Dove rubare è più facile che ritrovare. Dove gridare il proprio dolore diventa un atto di coraggio, di protesta, di comunità.
Laura ha ricevuto centinaia di reazioni. Qualcuno le ha consigliato cosa fare. Qualcuno le ha raccontato la propria storia. Qualcuno le ha detto di non illudersi. Eppure quel dolore è rimasto lì, crudo, esposto. Non c’è retorica, non c’è rabbia acida. Solo quel “sono a pezzi” che pesa come un macigno. Perché quella bicicletta non era solo un mezzo di trasporto. Era il simbolo di una vita quotidiana fatta di sacrifici, di turni, di corse contro il tempo. Era libertà. Era risparmio. Era normalità.
Rubare una bici oggi è come strappare a qualcuno un pezzo di identità. E farlo davanti al luogo di lavoro, in pieno giorno, senza temere nulla, è uno schiaffo collettivo. Un messaggio brutale: qui, possiamo tutto. E voi, potete solo accettarlo.
Non ci sono indagini lampo, non ci sono posti di blocco. Non c’è l’eroe che corre dietro al ladro. C’è solo il silenzio di chi osserva e il brusio social di chi commenta. Una rabbia impotente che monta, che cresce, che però non riesce a trovare una voce. O meglio: la voce c’è. È quella di Laura. È quella di una donna che si è seduta davanti al telefono, col cuore in gola, e ha scritto un post. Un grido di dolore che è diventato, in un attimo, un grido di comunità.
Rivarolo ha mostrato le sue crepe. E lo ha fatto in una maniera tragicamente normale. Una bici rubata è la cronaca di una sicurezza che vacilla, di una rete che si sgretola. E che si ritrova, paradossalmente, proprio nei commenti a un post.
Perché quella che sembra una storia da nulla è in realtà una cartolina perfetta del nostro tempo: un furto, un social network, una città intera che si guarda allo specchio e si chiede dove ha sbagliato.
Laura non ha chiesto giustizia. Non ha chiesto vendetta. Ha chiesto attenzione. “Se la vedete, contattatemi”, ha scritto. Ha chiesto una mano, un’occhiata in più, una solidarietà concreta. E in fondo ha chiesto anche un po’ di rispetto. Perché in questo tempo in cui rubare una bici sembra non valere più nulla, restare umani è il gesto più rivoluzionario.
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