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Costume e società
08 Maggio 2025 - 10:15
Lapo Elkann
Domani avrebbe dovuto essere a Biella, tra le migliaia di penne nere riunite per la 96esima Adunata nazionale degli Alpini. Ma Lapo Elkann, stavolta, non ci sarà. Gli impegni glielo impediscono, anche se il cuore resta là, tra le montagne, le marce, le camerate e quei mesi di leva che ancora oggi definisce “una delle esperienze più belle e formative della mia vita”. Lo racconta in un’intervista al Corriere della Sera, rievocando con passione e una punta di nostalgia gli anni passati in divisa, tra Belluno, Cuneo e Bousson.
Nato a New York nel 1977, rampollo della famiglia Agnelli, figlio di Margherita Agnelli e del giornalista Alain Elkann, Lapo ha sempre rappresentato il volto più estroso e anticonvenzionale della dinastia torinese. Carriera da manager, un passato tra Ferrari e Fiat (dove fu responsabile del marketing e contribuì al rilancio della 500), e oggi imprenditore e filantropo impegnato con la sua fondazione, la LEF – Lapo Elkann Foundation, che si occupa di inclusione sociale, disabilità e povertà educativa.
Ma prima di tutto questo, c’è stata la naja. Era il 1999, Lapo aveva ventun anni e un cognome pesante, ma all’epoca non così riconoscibile. In pochi, tra i compagni di leva, associavano quel ragazzo dall’aria ribelle alla dinastia Agnelli. “Il furiere anziano non sapeva nemmeno come scrivere il mio nome. Quando gli dissi che ero nato a New York pensò che lo prendessi in giro”, racconta. Fu una benedizione: nei primi mesi, nessun trattamento speciale, nessun occhio di riguardo. Solo un giovane tra tanti, pronto a guadagnarsi il rispetto sul campo.
E pensare che il nonno Gianni Agnelli sognava per lui una carriera da ufficiale. “Ma alla visita mi hanno scartato: troppi tatuaggi. Un colpo di fortuna, così sono diventato un alpino di truppa”, dice oggi con un sorriso. Orgogliosamente alpino semplice, come Peppino Prisco, di cui condivideva la sede a Cuneo, anche se non la fede calcistica.
Poi l’ultimo periodo a Bousson, tra le nevi e le ascese con il gruppo sciatori della brigata Taurinense, a respirare la fatica e l’aria sottile delle vette. E con quella divisa addosso, Lapo imparava le regole, le gerarchie, i piccoli riti quotidiani: “Mi hanno sbrandato, certo. E se sbagliavo a fare il letto, mi toccavano le flessioni. Ma era tutto vissuto come un gioco di squadra. Gli anziani erano fratelli maggiori, non padroni. La vera sofferenza era in mensa, tra piatti da lavare e teglie incrostate”. Una volta, per vedere una partita con il nonno, chiese un cambio turno. Al ritorno, la punizione: ore e ore a lavare montagne di stoviglie lasciate apposta sporche dai volontari. Nessuna ribellione, solo denti stretti e lezione imparata.
Ma il momento più alto? “Essere mortaista. Il più alpino degli alpini”, dice senza esitazione. Secondo reggimento, battaglione Saluzzo, compagnia 106esima. “Eravamo gli unici autorizzati a tingere di nero gli anfibi. Gridavamo ‘Doi!’ (due, in piemontese) e io mi emozionavo. Eravamo tutti uguali, tutti con la stessa fatica. E la sera ci raccontavamo la giornata. Non ero il nipote di qualcuno, ero Lapo e basta”.
Un’esperienza che lo ha segnato nel profondo: “La naja ti insegna che le differenze non contano. Ti insegna a stare in piedi, a farcela, anche quando le onde della vita diventano alte. È lì che ho imparato a surfare, anche nei momenti più difficili”. E, nonostante gli impegni lo tengano lontano da Biella, quella “penna nera” continua a brillare con fierezza tra i suoi ricordi.
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