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07 Maggio 2025 - 01:15
Matteo Chiantore, sindaco di Ivrea
Non è un appello generico, né una petizione da inoltrare con un clic. È una lettera vera, ufficiale, stampata su carta intestata del Comune, datata 5 maggio 2025, indirizzata direttamente al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro degli Esteri Antonio Tajani. Una voce che si alza da Ivrea, città medaglia d’oro della Resistenza, per chiedere al Governo della Repubblica un gesto di coraggio, di giustizia, di civiltà.
«Desideriamo portare alla Vostra attenzione e condividere alcune riflessioni e preoccupazioni per l’aggravarsi della situazione in Palestina», scrive l’Amministrazione comunale, «auspicando un impegno comune per favorire una risoluzione che favorisca la pace e la stabilità nella regione.»
Ma non si ferma qui. Va dritta al cuore della questione: «Riteniamo opportuno auspicare un atteggiamento responsabile da parte della Repubblica Italiana, che possa includere il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina, la richiesta di un cessate il fuoco immediato e duraturo, e la sospensione di accordi politici, economici e militari con Israele.».
La parola “responsabile” non è scelta a caso. È una chiamata alle istituzioni italiane: scegliete da che parte stare. Perché ciò che accade ogni giorno sotto il sole pallido di Gaza, tra le macerie di Rafah e le rovine di Khan Yunis, non è più un conflitto. È diventato uno sterminio.
«Le notizie provenienti da Gaza da marzo 2025 sono estremamente preoccupanti – si legge – Purtroppo, sono stati segnalati episodi in cui civili, tra cui bambini, personale medico, operatori umanitari e giornalisti, sono stati coinvolti in situazioni di violenza e di attacchi diretti.»
Persone colpite mentre salvavano vite. Bambini uccisi nei letti. Volontari massacrati mentre distribuivano aiuti. Medici morti con le mani ancora sporche di sangue.
E ancora: «La sospensione degli accordi sul cessate il fuoco da parte di Israele costituisce un episodio che richiede un’attenta riflessione e una risposta concertata, nel rispetto del diritto internazionale e della dignità umana.»
Un atto d’accusa, ma anche un appello al diritto. Alla legalità. Alla memoria.
Perché ogni volta che un ospedale viene bombardato, ogni volta che un drone abbatte un convoglio della Croce Rossa, ogni volta che un corpo senza testa viene estratto da sotto una scuola, si spegne un pezzo della nostra coscienza collettiva.
Insomma, Ivrea, rispondendo anche — almeno in parte — all’appello lanciato qualche sabato fa da Cadigia Perini di Rifondazione Comunista durante il presidio per la pace, chiede che si dica basta. Con fermezza. Con lucidità. Con umanità.
E lo fa con parole nette, rivolgendosi non solo all’Italia, ma anche all’intera Unione Europea: «È fondamentale che tutte le parti coinvolte si impegnino per un percorso di dialogo e di pace, sostenuto anche dall’Unione Europea e dai paesi coinvolti.»
Ma non basta più il solito invito al dialogo. La lettera affronta senza timori scenari terribili: «La possibile deportazione di popolazioni palestinesi verso altri paesi o la trasformazione della Striscia di Gaza in un’area sotto gestione internazionale richiamano l’attenzione su temi delicati di grande rilevanza umanitaria.»
Sono parole che fanno rabbrividire. Perché “deportazione” è una parola che l’Europa ha inciso nella carne della propria storia. E quando una città come Ivrea la scrive nero su bianco, è perché sa che il confine morale è stato superato.
Là dove un tempo sorgevano palazzi, oggi si aprono crateri. Dove i bambini giocavano a calcio, si raccolgono resti umani. Dove si giurava sulla vita, oggi si prova a salvarla in ospedali al buio, senz’acqua, senza anestesia.
Secondo i dati ONU, più del 90% degli edifici di Gaza è stato danneggiato o distrutto. Si contano oltre 52.000 morti, e l’elenco cresce ogni giorno. A Rafah, gli ultimi rifugiati dormono sotto teloni strappati, mentre i carri armati israeliani si avvicinano al valico egiziano. Le pompe idriche sono ferme. Il pane è un miraggio. Il latte per i neonati è finito da settimane. Anche i cimiteri, ormai, sono saturi.
Nel frattempo, la Cisgiordania subisce la sua “gazificazione” silenziosa. La lettera non lo dice in modo esplicito, ma i fatti lo gridano. Coloni armati assaltano villaggi palestinesi, protetti da pattuglie dell’esercito. I check-point moltiplicano le umiliazioni. Gli arresti arbitrari aumentano. I campi profughi vengono bombardati come se fossero basi terroristiche.
E il mondo? Sta a guardare. Le organizzazioni internazionali rilasciano comunicati. Le cancellerie europee “esprimono preoccupazione”. Ma nessuno muove davvero un dito.
Per questo, oggi, una lettera di due pagine scritta a Ivrea ha il valore di un atto politico rivoluzionario. Perché dice quello che in troppi fanno finta di non sapere: che non ci sarà mai pace senza giustizia, e che continuare a mantenere relazioni con chi bombarda scuole e ospedali significa essere complici, non neutrali.
La chiusura del documento è sobria, ma densa come un testamento civile: «Crediamo fermamente che la pace e la democrazia possano e debbano essere valori condivisi, e che l’Italia possa svolgere un ruolo importante nel favorire un percorso di dialogo e di riconciliazione, in accordo con i principi di giustizia, umanità e rispetto reciproco.»
In un’Italia dove la politica estera spesso si piega a logiche di opportunismo e fedeltà strategica, una piccola città piemontese ha deciso di parlare. Di alzare la voce. Di scrivere nero su bianco: “No. Non in nostro nome.”
E mentre a Gaza il sole tramonta sulle rovine, mentre a Gerusalemme Est si scavano nuove fosse, mentre le famiglie palestinesi si stringono in silenzio davanti all’ennesima notte di bombardamenti, una firma vergata in un ufficio comunale di Ivrea ricorda che esiste ancora uno spazio per la politica che ascolta, che guarda, che si assume responsabilità.
Uno spazio per la coscienza. Prima che sia troppo tardi.
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