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Quel giorno di pioggia: il Grande Torino non è mai tornato, ma non è mai andato via

4 maggio 1949: lo schianto di Superga spezza trentuno vite e lascia un vuoto nella storia del calcio e nella coscienza di un intero Paese. Ogni anno, su quella collina, si rinnova la memoria degli Invincibili

Quel giorno di pioggia: il Grande Torino non è mai tornato, ma non è mai andato via

Quel giorno di pioggia: il Grande Torino non è mai tornato, ma non è mai andato via

Alle 17:03 del 4 maggio 1949 un lampo improvviso, un’esplosione lontana, e poi il silenzio. Un silenzio irreale, assordante, di quelli che restano sospesi nell’aria, come il respiro trattenuto di un popolo intero. A quell’ora precisa, l’aereo Fiat G.212 della compagnia ALI, partito da Lisbona e diretto a casa, si schiantava contro il muraglione posteriore della Basilica di Superga, sulla collina che domina Torino. A bordo c’era la squadra più forte che l’Italia avesse mai conosciuto: il Grande Torino. Trentuno vite spezzate in un istante. Trentuno cuori che smettono di battere nel freddo di quel giorno di pioggia, lasciando un vuoto che ancora oggi, a 76 anni di distanza, nessuno ha saputo colmare.

Chi non c’era, non può capire davvero. Ma chiunque ami il calcio, chiunque abbia provato a rincorrere un sogno su un campo di terra, chiunque abbia vissuto il legame misterioso e viscerale tra una squadra e il cuore della sua gente, può sentire ancora oggi l’eco di quel dolore. Perché il Grande Torino non era solo una squadra: era una speranza, era una promessa, era una bandiera di rinascita per un Paese che usciva a fatica dalle macerie della guerra e cercava, disperatamente, qualcosa in cui credere.

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Non erano semplicemente forti. Erano un’altra cosa. Erano invincibili. E li chiamavano proprio così: Gli Invincibili. Avevano vinto cinque scudetti consecutivi. Dominavano, ma con eleganza. Schiacciavano, ma con classe. Quella maglia granata, intrisa di sudore e dignità, era diventata un simbolo, non solo sportivo. Quando nel 1947 si disputò Italia-Ungheria, il commissario tecnico scelse dieci giocatori del Torino su undici. Una cosa mai vista. Un record che ancora oggi racconta la portata di quel fenomeno.

Ma quella squadra, quell’idea di squadra, non tornò mai a casa.

Quel 4 maggio erano di ritorno da Lisbona, dove avevano disputato un’amichevole contro il Benfica, organizzata in onore di Francisco Ferreira, capitano dei portoghesi e grande amico di Valentino Mazzola, il capitano granata. Un viaggio di cortesia, sì. Ma anche un viaggio d’orgoglio. Perché il Grande Torino non era solo la squadra più forte d’Italia, era tra le più forti d’Europa. Avevano incantato anche lì, mostrando classe, compattezza, spirito.

Poi il viaggio verso casa. Il maltempo. Una nebbia così fitta da inghiottire ogni certezza. Il pilota cercò un punto di riferimento. Ma nella coltre grigia, la Basilica di Superga si confuse con la collina. Uno schianto. Una tragedia. La fine.

Ecco i nomi che non si dimenticano. Valerio Bacigalupo, portiere coraggioso, istintivo. Aldo e Dino Ballarin, fratelli, due anime nello stesso destino. Émile Bongiorni, francese di origine italiana, attaccante con la classe dei fuoriclasse. Eusebio Castigliano, piedi intelligenti, visione di gioco. Rubens Fadini, appena ventuno anni, la speranza del domani. Guglielmo Gabetto, “Gabe”, capace di stregare con il pallone. Ruggero Grava, talento puro, nato in Francia ma italiano di cuore. Giuseppe Grezar, combattente friulano. Ezio Loik, il centrocampista che non si fermava mai. Virgilio Maroso, terzino moderno, elegante. Danilo Martelli, roccia del centrocampo. Valentino Mazzola, il più grande. Il numero dieci che ogni bambino voleva essere, il capitano che con un semplice gesto – alzarsi le maniche – accendeva la squadra. Romeo Menti, l’ala velocissima, fantasiosa. Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Július Schubert. Tutti campioni. Tutti ragazzi.

Ma non erano soli. A bordo c’erano anche gli allenatori, le menti illuminate di Ernő Egri Erbstein e Leslie Lievesley. C’era il massaggiatore Ottavio Corina, che conosceva il corpo di ciascun giocatore meglio di chiunque altro. C’erano i dirigenti Arnaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti, Ippolito Civalleri. C’erano i giornalisti Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Luigi Cavallero de La Stampa, Renato Tosatti della Gazzetta del Popolo. Tre uomini che con la penna avevano saputo raccontare non solo le imprese, ma l’anima del Toro. C’erano poi i membri dell’equipaggio: Pierluigi Meroni, Cesare Biancardi, Celestino D’Incà, Antonio Pangrazi.

Trentuno nomi. Trentuno vite. Trentuno assenze che, da allora, fanno parte della storia e della coscienza collettiva del nostro Paese.

Torino non fu più la stessa. L’Italia non fu più la stessa. Il 6 maggio 1949, ai funerali, più di mezzo milione di personesi riversarono nelle strade del capoluogo piemontese. Le immagini dell’epoca mostrano visi rigati dalle lacrime, fazzoletti bianchi sventolati come ultimo saluto, uomini e donne che piangono in silenzio, come si piange un figlio, un fratello, un padre. E forse era davvero così. Quegli uomini, quegli Invincibili, erano entrati nella case e nei sogni di tutti.

Il campionato 1948-49 fu assegnato al Torino, senza discussione. Le ultime quattro partite furono giocate dalla formazione giovanile, che vinse tutte le gare. Come a dire che lo spirito del Toro era sopravvissuto, che quell’anima collettiva, forgiata dal sacrificio e dal talento, non si era spenta con lo schianto.

Da allora, ogni 4 maggio, sulla collina di Superga, si rinnova il rito. Si leggono i nomi. Si recitano preghiere. Si intonano cori. E si piange, sì. Ma è una lacrima diversa. È una lacrima che dice “grazie”. Che dice “non vi abbiamo dimenticato”. Che dice “ci siete ancora, in ogni nostro respiro granata”.

Ma non è solo Torino. Non è solo il Toro. È tutto il calcio italiano che si ferma, ogni anno, e guarda verso Superga. Con rispetto. Con dolore. Con orgoglio.

Scrisse Indro Montanelli il 7 maggio 1949: "Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta."

E davvero, il Grande Torino non è morto. È nei racconti dei nonni, nei poster ingialliti, nei documentari che commuovono anche chi il calcio non lo segue. È nelle lacrime di chi sale a piedi quella collina, ogni anno, come fosse un pellegrinaggio. È nel cuore di ogni tifoso granata, ma anche di chi crede che lo sport possa essere più grande del risultato, più importante del trofeo. Che possa diventare vita, esempio, memoria.

È una storia che ci appartiene. Una ferita che è anche fierezza. Un’eredità che ancora ci guarda, con gli occhi giovani e fieri di quei trentuno che non sono mai davvero scesi da quell’aereo.

Perché certe luci, anche nella nebbia, non si spengono mai.

il disastro

i funerali

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