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Lo Stiletto di Clio

Gli Assabesi in vetrina al Valentino. Torino e il volto rimosso del colonialismo

Nel 1884 sei indigeni della Dancalia furono esposti in un villaggio africano allestito per l’Esposizione generale. Il libro di Maurizio Aragno riporta alla luce un episodio dimenticato della storia sabauda e italiana

Gli assabesi che furono ospitati a Torino nel 1884

Gli assabesi che furono ospitati a Torino nel 1884

Gli assabesi? Chi sono costoro? Alla domanda, oggigiorno, ben pochi sanno rispondere. Ciò non toglie che la loro storia s’intrecci strettamente con quella dell’Italia dopo l’unificazione e, in particolare, con le vicende di Torino, non più capitale dei Savoia.
Il termine «assabesi» individua gli abitanti della regione di Assab, nel Sud della Dancalia, lungo la costa occidentale del Mar Rosso, in Eritrea. La baia omonima e il suo inospitale entroterra furono acquistati nel 1869 dall’esploratore ed ex missionario ligure Giuseppe Sapeto (1811-1895) per conto della Società di navigazione Rubattino, che intendeva collocarvi un deposito di carbone. La compravendita, in realtà, nascondeva le mire espansionistiche del governo presieduto dal savoiardo Luigi Federico Menabrea nell’Africa orientale. Tredici anni più tardi, infatti, Assab passerà formalmente all’Italia, la quale darà così inizio alla propria politica colonizzatrice.

Manifesto per l'Esposizione generale italiana che si tenne a Torino nel 1884

Manifesto per l'Esposizione generale italiana che si tenne a Torino nel 1884

Gli assabesi giungono a Torino

Gli Assabesi giungono a Torino

E Torino che cosa c’entra? C’entra perché sei indigeni del luogo (tre uomini, una donna e due bambini) furono ospitati in città per l’Esposizione generale del 1884, la stessa che condusse all’edificazione del borgo e della rocca medievalinel parco del Valentino. Proprio lì fu allestito un villaggio dancalo dove gli indigeni finirono in bella mostra.
Di quella dimenticata vicenda tratta l’ultimo libro di Maurizio Aragno, stimato medico oculista a Settimo Torinese, cultore della storia sabauda e piemontese. Edito da Pathos Edizioni, il volume s’intitola «Assabesi a Torino». «Quando ebbe inizio la nostra avventura coloniale» è il sottotitolo.

Per comprendere la questione occorre inquadrarla opportunamente nel contesto delle rassegne etniche di gruppi umani. Queste riscuotevano, durante la seconda metà dell’Ottocento, grandissimi successi un po’ in tutt’Europa, da Parigi a Berlino e da Amsterdam a Zurigo, ma anche oltreoceano (Filadelfia, Boston, Chicago, ecc.).
Non vi è dubbio che si trattò di un’iniziativa inconcepibile ai giorni nostri poiché permeata di sentimenti discriminatori e segregazionistici, già allora non del tutto convincente, stando ai ripetuti moniti del conte Pasquale Stanislao Mancini(1817-1888), ministro degli Esteri nel governo presieduto da Agostino Depretis, affinché non si fomentasse la morbosa curiosità dei visitatori che accorrevano in gran numero a Torino.

Sennonché la realtà storica presenta risvolti che sfuggono alle disamine approssimative e poco circostanziate. Il villaggio africano, infatti, trovò un’insolita collocazione accanto al borgo medievale: durante l’Esposizione, numerosi figuranti in abiti d’epoca animarono la strada, la piazza del castello, le botteghe e i cortili, rievocando la vita quotidiana di un centro rurale del Piemonte quattrocentesco. Trasferendo un angolo di Africa nel parco del Valentino, i responsabili dell’iniziativa vollero ricreare l’aura esotica della Dancalia, proprio come si fece con l’atmosfera medievale del borgo, ma pure con altri ambienti pittoreschi: lo chalet delle Alpi, il nuraghe sardo, la pagoda, il chiosco orientaleggiante della birreria Dreher, ecc.
Oggigiorno, senza i figuranti e gli attori, il borgo medievale e l’annessa rocca risultano privi del fascino originario, come evidenzia un recente studio del Politecnico di Torino. Altrettanto sarebbe certamente accaduto col villaggio africano senza i sei nativi della Dancalia, regolarmente retribuiti come da contratto, vezzeggiati dalle pubbliche autorità e ricevuti in udienza privata dal re Umberto I e dalla regina Margherita.

A Maurizio Aragno, ricercatore attento e scrupoloso, va riconosciuto il merito di rispolverare per i lettori non specialisti, con un linguaggio fluido e tutt’altro che accademico, ma anche con quel briciolo di humour che non stride mai, una storia di altri tempi. Impreziosito da suggestive immagini d’epoca, il libro invoglia, fin dal titolo, alla lettura. Il che non è poco.

In appendice, l’autore rispolvera un’autentica chicca: il testo della farsa, tradotta in italiano, che il commediografo e avvocato Eraldo Baretti (1846-1895), originario del rione Piazza di Mondovì, dedicò alle peripezie dei sei africani nell’ex capitale sabauda.
L’opera andò in scena per la prima volta, il 20 ottobre 1884, al Teatro Rossini (non esiste più; sorgeva nella centralissima via Po, fra le vie Accademia albertina e San Massimo). Stampato nel 1928, il libretto col testo originario in piemontese è alquanto raro: nelle biblioteche pubbliche se ne trovano pochissimi esemplari.

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